Bernini, ecco il titolo dell’ultimo documentario prodotto da Magnitudo film, con la collaborazione di Chili, diretto dal talentuoso e appassionato Francesco Invernizzi.
Bernini e non serve altro. Il nome richiama già il mondo e la grandezza, la magnificenza dell’autore e delle sue opere. Gianlorenzo Bernini, diventato emblema del Barocco, innovatore e realizzatore di un modo di concepire la statuaria e le opere in genere da cui non esisterà ritorno.
Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese di Roma, Luigi Ficacci, storico dell’arte e soprintendente generale all’Istituto superiore per la conservazione e il restauro e Andrea Bacchi, direttore della Fondazione Zeri, accompagnano lo spettatore durante un percorso privilegiato attraverso le oltre 60 opere in esposizione – alcune delle quali in prestito da museo stranieri: i due crocifissi in prestito dall’Escorial di Madrid e dal museo di Toronto, il busto del Salvator mundi dal Chrysler Museum of Art di Norfolk- a Villa Borghese, luogo d’eccellenza per accogliere una mostra su Bernini.
Fra l’artista e il luogo c’è un rapporto privilegiato. Esagerando si potrebbe dire che non c’è l’uno senza l’altro. Si influenzano e plasmano a vicenda: il luogo ha sicuramente ispirato l’artista e l’artista ha sottolineato e arricchito la bellezza del luogo, grazie al protettore di eccellenza di Bernini: il cardinale Scipione Borghese, che intuì la grandezza del giovane e volle sostenerlo sin da piccolo.
Bernini iniziò piccolissimo a dare prova della sua arte. E pur riconoscendo un debito al padre Pietro, che lo introdusse alla scultura, Bernini ne superò la maestria indubbia, raggiungendo vette mai toccate prima.
Se prima le statue erano allegoriche e rappresentative, evocatrici di qualche evento, di qualche persona, pur rimanendo distanti e immobili, adesso le statue sono esse stesse vive e vivono in quel hic et nunc che si aziona quando uno sguardo si posa su di loro. Bernini vuole dare vita alle sue opere, dare loro una pulsione, anche erotica che prima di allora era inimmaginabile. E allora se verità deve essere, se vita deve essere devono per forza esserci diversi materiali.
È il meccanismo opposto a quello che anni e anni dopo fece un altro genio dell’arte, Renè Magritte, con Ceci n’est pas une pipe. Da un lato la ricerca di un’immediatezza che facesse superare il mezzo artistico, dall’altra lo svelamento del mezzo per raggiungere la verità. Ma erano altri tempi e altri contesti.
Incredibili i voli che riusciamo a fare attraverso le modernissime tecniche e l’altissima definizione volute da Invernizzi. Pochi artisti sono riusciti a riproporre la percezione del movimento con tanta forza e in modo così poco esplicito, si dovranno aspettare i futuristi (Umberto Boccioni e la sua Forme uniche della continuità nello spazio, tanto per avere un’immagine), forse, per una ricerca plastica del movimento tanto estrema.
Certo Bernini diede una spinta propulsiva a ciò che Michelangelo aveva accennato con il tallone alzato di David e che in Bernini invece diventa forza in potenza ancora non espressa: la rotazione del corpo, la concentrazione dello sguardo e, quello che per me è la cosa più sorprendente, quel labbro morso nell’acme prima dell’azione verso il Golia di turno, che poi è lo spettatore, come a dire “Tu sei il nemico contro cui sto lavorando, tu che forse non comprenderai mai lo sforzo e la grandezza della mia arte e io pur facendo una statua emblematica riesco a gridare il mio bisogno di verità, limitata da committenti a volte troppo pudichi e poco coraggiosi”. Già, troppo pudichi, perché alcune statue di Bernini furono considerate scabrose, provocatrici: le sue sante erano ninfe, l’ermafrodito, asessuato per eccellenza, diventa voluttuoso e provocante nel suo letto morbido e accogliente.
Ottima la musica, colonna sonora adeguata alle nove sezioni di cui si compone e divide il documentario, che poi sono anche le sezioni della mostra. Apprezzabilissima la scelta, mai tanto felice di non inserire becere fiction, che avrebbero tolto mordente e attenzione alle opere d’arte e che spesso invece affliggono gli spettatori. Interessante anche la scelta, voluta e suggerita dai curatori, di inserire parti di Roma come bonus per approfondire gli aspetti architettonici che influenzarono Bernini e che egli stesso influenzò, lo stesso dialogo che ebbe con la villa-museo.
Un’ultima chicca: i bozzetti delle opere architettoniche, i busti di effigiati che indagano l’anima, ridandone la tempra, i dipinti, che mostrano un Bernini forse meno conosciuto ma ugualmente innovativo, con quei tratti indefiniti, che ritroviamo in Degas e negli impressionisti per esempio, ma con il gusto coloristico quasi fauviano (comprendo che gli accostamenti sono azzardati, ma probabilmente per questo più impressionanti).
Assolutamente da non perdere.
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