Berlino Ovest 1977. Una ragazza infreddolita sotto alla pioggia bussa violentemente alla porta del suo psicologo, il dottor Jozef Klemperer. Ha bisogno di raccontare con urgenza i deliri che la tormentano, poiché è convinta di essere perseguitata dalle insegnanti della sua scuola che è certa essere streghe. Da lì a pochi giorni la ragazza scompare, forse a causa di frequentazioni pericolose legate al terrorismo che stanno scuotendo la città. Di tutt’altra pasta sembra invece essere fatta Susy, ingenua americana appena arrivata dalla profonda campagna ma con un enorme talento per la danza. Tutti la notano, soprattutto Madame Blanch la coreografa della scuola che le affida la parte della protagonista nel suo balletto. È ovvio però che qualcosa non va, troppe ragazze scomparse ma il dottor Klemperer non si dà per vinto nella ricerca della sua paziente.
Suspiria è stato prima di tutto il capolavoro assoluto di Dario Argento, un film ancora così epocale che Luca Guadagnino ha voluto precisare, di non aver avuto alcuna intenzione di fare un remake, ma una sorta di cover, prendere cioè l’originale e modificarlo con il proprio gusto. Detto fatto, perché il nuovo Suspiria è davvero una pellicola che se mantiene un legame con l’originale lo fa con la massima deferenza. Dove Argento metteva colori vivaci e acidi dando l’effetto straniante di un film Disney in un contesto horror, Guadagnino gioca con le scale di grigio, marrone e con qualche macchia di rosso, per raccontare una città ancora ferita dalla Guerra e scossa dal terrorismo armato. Stesso dicasi per le architetture, fiabesche quelle del ’77, rigorose ma altrettanto affascinanti (vedi la sala degli specchi), quelle di oggi.
Gli intenti però sono davvero diversi, perché Suspiria di Guadagnino più che un horror è un film d’autore, vedi nel ritmo lento che non cede mai a logiche di genere. C’è dietro la volontà di non raccontare più solo la storia ben nota della scuola di danza, nessun giallo dietro alle streghe, nessun mistero su quello che sta accadendo, ma piuttosto cercare nuovi accostamenti di senso, riguardo a temi come la maternità, la femminilità e l’arte. Se di quest’ultima Guadagnino ha più volte detto la sua, in Chiamami con il tuo nome ad esempio si parlava di letteratura e di scultura, qui di danza, è sulla maternità che si sviluppa il discorso più interessante. Soprattutto nella visione dei frammentari flash back di Susy, nei sogni tormentati e nel rapporto con la madre, anche visivamente sono le immagini che mettono più a disagio lo spettatore.
Ma è proprio la stratificazione di metafore di senso che fa crollare il film sotto il proprio peso, troppo lungo (ben 152 minuti divisi in sei atti ed epilogo) con un finale delirante ed eccessivo, in cui lo spettatore fa fatica a tirare i fili del discorso. La sceneggiatura avrebbe avuto bisogno di maggiore compattezza, rinunciando a qualcosa, come ad esempio tutta la storia del dottor Klemperer. Ma è soprattutto l’epilogo a dare una sferzata così brusca al mood del film, da lasciare lo spettatore con le ossa rotte al pari la danzatrice accartocciata della scena più bella e memorabile di questo Suspiria.
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