1
Il bambino pestò con forza prima il piede destro poi il sinistro e ripeté l’operazione con pervicacia per un altro paio di volte. Il viso divenne paonazzo e raggrinzito mentre stringeva gli occhi e storceva la bocca in un disperato ultimo tentativo di ottenere ciò che aveva chiesto. Non era mai capitato che una sua richiesta, dalla più insignificante alla più grandiosa venisse rifiutata. Alle volte non doveva nemmeno domandare, bastava che indicasse, con il dito, ciò che in quel momento pensava gli spettasse di diritto e era sicuro di non poterne fare a meno.
La sua cameretta era un mausoleo di oggetti disparati e oramai abbandonati, ignorati, lasciati a prender polvere. Ogni nuovo gingillo era stato il preferito per qualche tempo, spesso giorni o settimane o, in non pochi casi, solo qualche ora. – Voglio l’albero! – spruzzò con un grido strozzato di rabbia e insoddisfazione pestando di nuovo i piedi. – Voglio l’albero!
I genitori si guardarono, incapaci di rispondere. Non avevano mai negato nulla al figliolo fino a quel momento, ma quella era per loro impossibile da soddisfare.
- Voglio l’albero! – Il padre provò a parlare ma la madre lo fermò, si inginocchiò davanti al figlio e gli prese le mani tra le sue.
- Oggi no. Domani, se il clima ci permetterà di uscire. Ora vai in camera a giocare, tra un’ora sarà pronta la cena.
Il bambino lasciò andare le mani della madre e strinse i pugni, ancor più rosso e arrabbiato per non aver ottenuto quello che voleva. – Voglio l’albero! Voglio l’albero! – Corse fuori dalla stanza sbattendo per terra i piedi e buttando a terra ciò che trovava sul suo cammino.
I genitori si guardarono…
2
Sentirono una stretta al cuore al pensiero di non poter accontentare il figlio, ma come fare. Gli alberi erano specie protetta e non si potevano tagliare, tenuti in riserve naturali apposite, protetti dalle contaminazioni esterne dalle medesime calotte rifrangenti, che avevano sostituito la barriera protettiva intorno alla Terra (atmosfera, ozono, ionosfera e molte altre parole scientifiche erano cadute in disuso dopo l’ultimo cataclisma climatico…) e che permettevano ancora una parvenza di vita sul pianeta. Ogni giorno il bollettino presentava il conto di quanti alberi fossero rimasti sul pianeta. Di come la nuova umanità cercasse di preservare le aree verdi, di bonificare il suolo reso sterile dalle guerre. Di come cercasse di mettere una pezza ai suoi errori del passato. Di come stesse fallendo, senza misericordia.
- Come possiamo negarglielo? – disse a un certo punto la madre. La voce rotta da un nodo in gola che non si capiva se fosse mestizia oppure rassegnazione alla protervia del figliolo.
Il marito la guardò. – Questa volta non possiamo accontentarlo. É troppo pericoloso. Per lui, per noi, per tutti. Gli regaleremo un albero plastico e dovrà accettarlo. Quando tornerà il caldo poi lo porterò a vedere gli alberi alla riserva.
- Ci resterà malissimo. Non gli abbiamo mai negato nulla – fu la rassegnata laconica risposta di lei. – Potremmo provare, chiedere, se… se ci lasciano… per un po’… se ci lasciano portarne a casa uno. Uno piccolo. – Tentò di nuovo, sperando di convincere il marito.
Non sopportava l’idea di deludere il bambino, o forse non voleva sentirlo urlare e pestare i piedi e piangere e reiterare le sue richieste all’infinito.
Altri doni erano pronti per essere aperti nella mattina del giorno più lieto, solo altri tredici giorni di attesa, e desiderava trascorrerli in un’atmosfera gioiosa e allegra.
Più che le sue parole furono lo sguardo e l’espressione a far capire
il nugolo di pensieri affastellati nella sua mente.
- Lavori per loro. Potresti chiederlo. – Quello era il colpo basso finale, che lo metteva nella condizione di non potersi rifiutare. Lui sbuffò una risposta e lasciò la stanza, dirigendosi in camera da letto.
Dalla stanza del bambino poteva udire i lamentii del figlio contro di loro. Un tenue senso di colpa si insinuò nella sua mente e nel suo cuore: da un lato si diceva che aveva già avuto così tanto, che avrebbe dovuto accettare il no per quella volta. Ma una parte di sé, forse ancestrale forse più razionale gli faceva notare che avrebbe potuto fargli avere quel regalo con poco sforzo.
La decisione la prese con l’ultimo barlume di coscienza mentre scivolava nell’oblio del sonno.
3
- Lei è pazzo! – La voce del direttore del comparto rimbombò e lo fece indietreggiare di qualche passo. – Come le salta in mente di fare una richiesta del genere? Portarsi a casa un albero? Nelle ultime trentanove ore ne sono morti più di trecento e novantasette. Giovani virgulti, stroncati da un parassita dicono i tecnici, ma sono quelle maledette cupole… non filtrano bene i raggi, non creano l’ambiente ideale perché gli alberi crescano e facciano il loro dovere. Gli ingegneri stanno lavorando ma gli alberi continuano a seccare e a morire. Proprio così. In questa riserva ne sono rimasti una decina appena…che devono ossigenare l’aria di ben trenta cupole villaggio… lei è pazzo. Ora se ne vada prima che prenda in considerazione la possibilità di farle una nota disciplinare. Se non fosse che siamo a corto di personale qualificato l’avrei già licenziata in tronco. E per oggi è esonerato dal turno. Vada a bersi qualcosa in mensa e poi torni per il prossimo. Ci pensi un attimo, e forse riuscirà a vedere oltre il suo egoismo.
Sconsolato l’uomo se ne uscì dall’ufficio. Non sapeva che la situazione fosse così grave. Tutti loro contavano sugli alberi per sopravvivere. Le cupole proteggevano in modo egregio dai raggi solari, che si abbattevano feroci e roventi sulla superficie trasformandola in deserto ma per l’ossigeno avevano bisogno degli alberi e dei loro processi di fotosintesi. Si cercava di creare un ripopolamento veloce e efficace ma, secondo i dati, non stava funzionando.
Gli alberi crescevano per un po’ poi cominciavano a avvizzire, a perdere fogliame, a seccare. E si tornava al punto di partenza. Con lentezza si recò alla caffetteria e prese un estratto di foglie essiccate (si cercava di non sprecare nulla e le foglie cadute venivano raccolte, essiccate e poi messe a macerare in acqua bollente. Se ne ricavava una bevanda amarognola ma gradevole, alla fine. E poi non erano tempi per esser schizzinosi) pensando a come avrebbe potuto risolvere quella storia.
Rimuginava quando l’allarme scattò in codice verde nero: significava che qualcuno aveva scoperto un altro albero andato. Se non riuscivano a trovare una soluzione in fretta, erano condannati all’estinzione.
Fu però proprio l’allarme a dargli la motivazione per agire. Che avrebbe avuto da perdere alla fine? chi avrebbe potuto biasimarlo per aver voluto esaudire un desiderio, forse l’ultimo, del figlio? Chi poteva ergersi a giudice di fronte alla sua volontà di far felice il suo bambino? E chi erano loro per dirgli che non poteva “prendere in prestito” un alberello per qualche giorno?
4
Attese che il parapiglia per l’allarme si placasse e poi lasciò la caffetteria. Con passo risoluto si diresse verso la sua area. Il capo gli aveva detto di non presentarsi fino al turno successivo, ma con l’emergenza un paio di braccia in più avrebbero fatto comodo e nessuno avrebbe fatto troppo caso a lui.
I tecnici, gli ingegneri, gli addetti si affaccendavano intorno alla pianta, le radici erano rattrappite e nere, in alcuni punti apparivano corrose. Si potevano ancora vedere granelli di sostanza rossa e secca, in tutto simile alla terra. Secondo alcuni era quella la ragione per cui le piante morivano, invece di un ricco e sano suolo si ritrovavano a prendere i nutrienti da quel limo avvelenato e contaminato. E duravano non più di qualche settimana, un paio di mesi i più resistenti. Dalle foto prese dai libri si era deciso per quella specie perché sembrava essere la più resistente: originaria del nord del mondo, abituata a superare freddo inverni, estati brevi e temperature proibitive. Gli scienziati aveva detto che avrebbero reagito bene. Ma non era andata così. Le piante non crescevano molto rispetto agli indici e alle tabelle. L’uomo lo sapeva bene perché uno dei suoi compiti era misurare l’altezza e la circonferenza del tronco. Gli avevano detto che, in età adulta, avrebbero raggiunto i 35 metri in altezza, svettando verso le cupole di vetro, ma era un miracolo quando riuscivano a superare il metro e mezzo. I tronchi rimanevano sottili e delicati. Erano però uno spettacolo per la vista: gli aghi lunghi lucenti e sottili, verdi con spruzzi d’argento creavano una sorta di mare in cui perdersi. E il profumo della resina scioglieva i sensi e le ansie di chi lavorava. Alcuni operai avevano cominciato a grattarla via dal tronco quando la trovavano, riponendola in contenitori ermetici e portandosela a casa. Altri avevano scoperto che mischiandola con oli neutri e mantenendola a uno stato semiliquido potevano preservarne il profumo per giorni. Lui stesso era uno di quelli… ma non poteva distrarsi in quel momento. Aveva una missione da portare a termine.
Ci vollero cinque uomini per portar via l’albero morto, un “Pinus Sylvestris”, come recitava il cartello. Era un esemplare giovane, alto circa un metro con un tronco di color aranciato e lunghi rami coperti di aghi verdi argento. Se fosse vissuto sarebbe stato un esemplare degno di nota. Come molti altri: nella cupola ormai restavano meno della decina di esemplari arborei e i più, sospettava, non avevano molti giorni di vita. Ormai scene come quella si ripetevano con una frequenza di quasi tre o quattro al giorno e non c’erano semi a sufficienza per rimpiazzarli. Anche se ci fossero stati, sarebbe servito a poco: ci volevano mesi perché un semino diventasse piantina e poi man mano si irrobustisse abbastanza da crescere. Buona parte degli alberi su cui lavorava avevano più di un anno di vita, la loro era una lenta agonia, un quotidiano continuo avvelenamento. Il problema era tutto nel terreno, dovevano averlo capito anche i geni che passavano ore e ore nei laboratori ma non avevano ancora trovato una soluzione. A lui interessava poco, bastava solo un alberello carino da portare a casa a suo figlio e farlo felice. Il resto poteva andare alla malora.
Il capo lo scorse e lo chiamò. - Comincia adesso – gli disse, con fare nervoso – e copri anche il turno di notte. Dimenticherò quanto mi hai chiesto e non ti farò una nota disciplinare come dovrei – Non gli diede il tempo di rispondere e se ne andò.
Era un vero colpo di fortuna: avrebbe avuto tutta la notte, senza interruzioni e senza controlli, per fare quello che doveva fare. La nuova gestione della piantagione aveva deciso di non effettuare più controlli notturni dopo aver installato un complicato e, secondo loro, efficace sistema di sorveglianza. Inoltre erano più che sicuri che nessuno avrebbe mai tentato di entrare. E per far cosa? Macchinari da rubare e rivendere non erano presenti. I laboratori utilizzavano solo vecchi microscopi e altri antiquati sistemi per analizzare il terriccio. Tutto avveniva seguendo i metodi tradizionali, per evitare rischi di contaminazioni con agenti esterni.
Il potente sistema consisteva in una ventina di videocamere installate per lo più nei corridoi principali e in altre aree comuni. Non una nelle cupole di piantumazione. Per non destare sospetti si mise subito all’opera, cominciando a visionare e misurare i vari pini. Cercava quello migliore per il suo prezioso bambino.
Infine lo vide, non più alto degli altri ma dritto e perfetto. Abbondanti
aghi adornavano i suoi rami, c’era da chiedersi come quelle braccia legnose potessero sopportare tutto quel peso. Guardò l’ora e si mise al lavoro. Da uno degli stanzini prese alcuni sacchi e li sistemò sul pavimento. Prese una vanga e cominciò a rivoltare la terra intorno all’albero che aveva scelto.
Era un lavoro faticoso e ci mise più tempo di quello che aveva previsto ma alla fine si considerò soddisfatto. Sradicò la pianta e la adagiò sui sacchi, prese della terra e la sistemò intorno alle radici fino a ricoprirle per intero. Andò poi a riempire un altro sacco con altra terra, abbastanza da garantirne la sopravvivenza per almeno una settimana. Ammirava il colore lucente delle fronde e sorrise pensando alla sorpresa che suo figlio avrebbe avuto la mattina seguente quando l’avrebbe visto. Quello che gli si andava formando nella testa era un vero e proprio piano per rendere quei giorni indimenticabili e speciali. Lo stomaco si strinse da quanta era l’emozione e la gioia a quel pensiero.
Avvolse la pianta nei sacchi di plastica e, seguendo una serie di corridoi secondari, eluse le videocamere di sorveglianza e nascose il suo bottino nel bagagliaio della macchina. Era una notte tiepida e cercò di immaginarsi le stelle, che dovevano brillare oltre il vetro spesso della gigantesca campana protettiva. Secondo il calendario antecedente all’ultima guerra, che aveva devastato in modo definitivo l’intero ecosistema, era dicembre. In quella parte dell’emisfero nord corrispondeva all’inverno, avrebbe dovuto fare freddo. Invece ciò che si vedeva attraverso il vetro modificato per resistere alle alte temperature era un desolato deserto. Mancavano pochi giorni e avrebbero festeggiato il Natale, una delle antiche tradizioni che in qualche modo erano rimaste. L’umanità sembrava sentire la necessità di ritrovare una perduta spiritualità, di affidarsi alle credenze più antiche, di ricercare ciò che aveva perso. Ciò che in realtà sopravviveva era un misto di vecchie abitudini e nuovi tentativi di ritrovare una parvenza di speranza e normalità. Con quella idea in testa l’uomo si era anche convinto a prendere quell’albero per il suo bambino. Una sorta di autoassoluzione per un gesto, che nella loro nuova società, era considerato pari al tradimento.
Si chiese quanto restasse alla popolazione mondiale da vivere. Ed era definibile vita quella? Un susseguirsi di giorni, sotto le cupole schermate, lottando per un palmo d’aria respirabile, in attesa di una fine che sembrava sempre più vicina e inevitabile. Qualcuno all’inizio aveva proposto di utilizzare l’aria, filtrandola attraverso depuratori e altri macchinari ma non aveva funzionato. Il verdetto, a quel punto, era stato pressoché unanime: servivano le piante. Letterati e naturalisti avevano tirato fuori i libri antichi dove erano raccolte le immagini di distese di alberi. “Polmoni verdi” erano chiamati e insieme al resto degli ambienti naturali, insieme alle particolari caratteristiche dell’atmosfera e di altri concetti che ben pochi avevano compreso, garantivano la vita sul pianeta. Era stato allora che si era scoperto che non c’era modo di salvare ciò che restava della coltre di ozono che proteggeva il pianeta, impossibile da replicare senza rischiare di far esplodere tutto (di nuovo). La sola soluzione più logica era quindi sembrata quella di riportare a un livello accettabile e sicuro la popolazione delle piante. Si erano studiati quegli ambienti protetti dove farle crescere e prosperare, intorno ai quali poi raggruppare piccole sacche di uomini. Ripartire da zero, con la consapevolezza del rischio e del fallimento, che pendeva sulle teste di tutti come un’immensa spada di Damocle.
La razza umana tenendo fede a quell’istinto di conservazione che l’aveva portata a essere la specie che aveva dominato il pianeta per millenni, creando meraviglie e al tempo stesso portandolo sull’orlo della distruzione, non sembrava disposta a accettare la propria condanna a morte. Condanna che si era firmata con le sue stesse azioni, con le guerre per accaparrarsi le ultime risorse disponibili, indifferente e menefreghista verso le condizioni in cui l’Ambiente, quello con l’A maiuscola, versava. Era stato solo quando non si era più potuta negare la condizione del pianeta che, alla fine e con fatica in un rimpallo di rifiuti e discolpe, i capi di stato avevano dovuto accettare la resa di fronte a quanto affermato per anni da chi si era battuto per salvaguardare quelle che erano diventate una specie di riserve naturali.
Le più brillanti menti a disposizione del pianeta si erano messe all’opera e il risultato era ora visibile sopra le loro teste: sistemi di cupole connesse tra loro da tunnel, micro villaggi che si sviluppavano a raggiera. Ma non stava funzionando: avevano creduto che il problema fosse solo sopra di loro – un’atmosfera quasi inutile, che permetteva che i raggi solari giungessero sulla terra senza filtri, l’aria ormai quasi irrespirabile – e non avevano considerato il suolo, arido e contaminato, che regalava tossine e nutrienti insieme. Ma non c’era modo di depurare la terra nel breve periodo. In qualche modo la Terra si sarebbe ripulita prima o poi da sola, oppure sarebbe collassata in modo definitivo, ma in un processo lento e le probabilità che per allora l’umanità si fosse estinta erano ogni giorno più alte.
Si sentiva così piccolo, insignificante e depresso mentre ritornava al suo lavoro, in attesa solo di tornare a casa e mostrare il dono al bambino.
5
In silenzio varcò la soglia di casa, con il suo prezioso carico appresso. Non si udiva nessun rumore e gli sembrava di essere rimasto l’unico uomo sul pianeta. Non aveva molto tempo e voleva che tutto fosse pronto per quando suo figlio si sarebbe svegliato. Aveva anche intenzione di fare una sorpresa a sua moglie, avrebbe preparato la colazione per tutti. Non i soliti cereali ma una vera colazione, come avevano visto nei film che la tv mandava a rotazione: riproponendo il passato ormai scomparso speravano di far dimenticare il futuro che era sempre più difficile che avrebbero avuto.
Ma non voleva pensarci, non quella mattina. Quella mattina doveva solo essere di gioia.
Si affaccendò tra il salotto e il garage, spostando scatoloni e vari arredi fino a che non si ritenne soddisfatto del lavoro fatto. L’albero risplendeva di stelle filanti e era abbellito da palle colorate: appartenevano alla famiglia di sua moglie, un retaggio del passato che era stato tramandato fino a lei. E ora lui ne aveva fatto buon uso.
Sorrise e andò in cucina e si mise ai fornelli ma prima che riuscisse a cominciare la preparazione, sua moglie comparve alle sue spalle. Sul viso color cioccolato era comparsa un’espressione incredula. - – L’hai fatto. – Sussurrò mentre lo abbracciava, lasciandosi stringere a sua volta.
- Non potevo non accontentarlo, – rispose lui con una risatina divenendo poi all’improvviso molto serio. – Non dopo aver visto l’ennesimo esemplare morire davanti ai miei occhi. Non sta funzionando. Non riescono a farli crescere e allora mi sono detto, che differenza fa? Voglio che abbia un vero albero di Natale, potrebbe essere la sua unica occasione per vederne uno dal vivo. Potrebbe essere il suo, il nostro, ultimo Natale. Non potevo non accontentarlo -
Lei sgranò gli occhi udendo le sue parole. Suo marito non parlava mai del suo lavoro e non solo perché faceva parte di un progetto governativo classificato come segreto (uno di quei vecchi stratagemmi per evitare che si diffondesse il panico tra la popolazione, come se fosse semplice con quasi tutta la popolazione impegnata presso le piantagioni) ma anche perché voleva proteggerli dalle sue ansie e preoccupazioni. Preferiva portare da solo il peso dell’essere a conoscenza di quale possibile destino attendeva l’umanità.
- Fammi preparare la colazione, – gli disse lei, baciandolo e cercando di togliergli da dosso la preoccupazione che gli leggeva negli occhi. – Tu vai a prendere i regali nello sgabuzzino e poi vai a chiamarlo altrimenti farà tardi a scuola.
Un sorriso mesto gli disegnò il volto di sottili rughe e la lasciò andare dirigendosi poi a prendere i pacchetti. Un paio per ciascuno di loro e il resto per il loro bambino, la loro ultima e unica gioia in quell’esistenza precaria. Poi si diresse in camera del figlio e lo svegliò. Si era addormentato vestito, poteva essere sicuro che era crollato dopo aver sfogato la sua rabbia per il rifiuto dei genitori la
sera prima. Il senso di colpa che ancora sentiva in una parte del cuore era lenito dalla prospettiva di mostrargli l’albero di Natale.
Lo scosse appena e lo chiamò, lui si mosse appena. Lo chiamò di nuovo e alla fine il bambino aprì gli occhi e fissò suo padre. Non capitava spesso che venisse lui a svegliarlo.
- Sveglia, Mamma sta preparando la colazione e non vorrai fare tardi a scuola – Lo aiutò a alzarsi e insieme andarono in cucina. Quando il bambino vide l’albero lanciò un grido di gioia. Cominciò a saltare per la stanza ma suo padre lo fermò. – Calma, calma. Lo terremo fino al giorno dopo natale poi devo riportarlo alla piantagione. Lo capisci? É importante, così potrà crescere rigoglioso. – Il piccolo nemmeno gli diede retta, passato il primo momento di euforia, si accostò all’albero e cominciò a osservarlo con attenzione. Non ne aveva visto mai uno dal vivo, solo le riproduzioni date in prestito alle scuole. Allungò una mano e sfiorò gli aghi, stupendosi di sentirli delicati e morbidi al tatto.
In quel momento dalla cucina risuonò la voce della mamma, che li chiamava per la colazione e di sbrigarsi altrimenti avrebbe fatto tardi a scuola. Saltellando fece per dirigersi in cucina ma il papà lo fermò, – Ascolta – gli disse guardandolo negli occhi – Non dire a nessuno di questo dono. Sei grande abbastanza da capire perché va protetto – Il bambino fece un cenno con la testa e sentì suo padre chiedergli di spiegargli perché non doveva parlarne con nessuno.
- La maestra ha detto che gli alberi sono il nostro futuro e quelli come te li proteggono e li fanno crescere – Non sembrava del tutto convinto della risposta ma quando vide suo padre sorridere, sorrise a sua volta.
L’uomo lo prese per mano. – Andiamo a fare colazione. Oggi ti accompagnerò io a scuola – Si sentiva stanco, dopo la notte di lavoro e la decorazione dell’albero di natale ma sentiva molto più forte del solito il desiderio di stare con il figlio. Anzi, per la prima volta da molto tempo sentiva il bisogno di trascorrere del tempo con lui. Poi un’idea si insinuò nella sua mente. – Perché non resti a casa oggi? Chiamerò io la scuola per dire che sei malato e che andrai domani – Il bambino squittì di felicità. – Potremo giocare tutto il giorno e fare altre cose insieme – L’uomo sorrise e annuì, avrebbe chiamato al lavoro dopo colazione spiegando di aver avuto il turno cambiato all’ultimo e di poter avere la giornata libera. Salvo qualche altra emergenza, non c’era davvero bisogno di lui data la sempre maggiore penuria di alberi nel suo settore. Avrebbe anche potuto essere trasferito o peggio, ma in quel momento non voleva pensarci. Voleva bearsi della gioia di suo figlio.
6
L’albero cominciò a perdere gli aghi dopo tre giorni che era stato reimpiantato in un grosso vaso di terracotta. Le vacanze si avvicinavano e il bambino era diventato fin troppo tranquillo. L’uomo, quando tornava a casa dal lavoro, li trovava intorno al tronco e aveva cominciato a notare che quelli che rimanevano sui rami stavano assumendo un color ruggine. Stessa sorte di quelli rimasti alla piantagione. In un processo che sembrava inarrestabile stavano morendo uno dopo l’altro. Già tre campane erano state chiuse e quella cui era assegnato non erano rimasti che tre alberi ma chissà quanto sarebbero ancora durati. La situazione stava precipitando e gli effetti cominciavano a vedersi. Gli ossigenometri oscillavano sempre più verso il livello di guardia e la popolazione veniva invitata a operare le necessarie misure, secondo i protocolli stabiliti da ciascun governo locale. Le scuole erano state chiuse in anticipo e i bambini tenuti a casa. L’utilizzo delle macchine era stato ridotto al minimo. Funzionavano con speciali batterie ma qualcuno non era convinto del tutto che non inquinassero. Chi lavorava per le piantagioni era ora costretto a utilizzare i bus gialli del servizio scolastico.
La televisione non parlava dell’emergenza che si stava avvicinando, trasmetteva solo film dove i protagonisti pattinavano all’aperto, sotto la neve, indossavano pellicce o pesanti cappotti, uscivano per strada e soprattutto non vivevano sotto le enormi cupole. Se l’idea era dare la speranza che prima o poi si sarebbe tornati a situazioni del genere, l’uomo pensava che era tutta una bugia.
E alla fine fu la mattina di Natale, sui rami quasi interamente spogliati degli aghi le decorazioni apparivano grottesche e inquietanti. Ma al bambino non sembrava importare: scese di corsa in salotto per aprire i regali seguito a breve distanza dai genitori. Il padre controllò l’ossigenometro e, per la prima volta da che aveva portato a casa l’alberello, vide il segnalatore quasi sfiorare la linea gialla. Il giorno dopo avrebbe dovuto riportarlo alla piantagione.
- Papà, Papà, – chiamò il bambino, prima di emettere un sospetto colpo di tosse e un lungo respiro stentato e affaticato – Vieni a aprire il tuo regalo – Sentendo come un peso al petto, l’uomo ubbidì e raggiunse il figlio, dalla cucina sentiva provenire i rumori tipici della preparazione della colazione e spandersi il profumo dei toasts, del caffè e di altre leccornie. – Apri prima il mio – gli disse il figlio porgendogli un pacchetto avvolto in carta argentata e abbellito da un fiocco verde. Doveva averlo fatto a scuola, poco prima che venissero chiuse. Nonostante non si sentisse bene e avesse la sensazione di un forte cerchio alla testa, non vedeva l’ora di scoprire cosa contenesse la scatola. - Mamma, anche tu, vieni – la vocetta acuta rotta da un sibilo. Dopo pochi minuti la donna comparve reggendo un vassoio, il marito notò subito il pallore e si alzò per aiutarla. Dall’albero si staccò una pioggia di piccoli aghi, andando a raggiungere il tappeto intorno alla base del vaso. I rami erano ora piegati verso il basso per il peso delle stelle filanti e delle palle natalizie.
Il telefono squillò, rompendo l’apparente atmosfera familiare.
- Mi dispiace disturbarti il giorno di Natale, – La voce all’altro capo era quella del suo capo e alle sue orecchie suonava sofferente e affaticata. – Da dopodomani devi presentarti al settore smaltimento e resterai fino a quando i nuovi alberi non arriveranno. Spero presto, perché sono quasi tutti morti e intendo che ne sono rimasti solo quattro in tutta la piantagione. La situazione è terribile. Comunque Buon Natale. Ci vediamo tra due giorni, spero – E attaccò senza attendere risposta.
Se ci saremo ancora, tra due giorni. Pensò l’uomo tornando a sedersi sul divano con la famiglia. Davanti a loro il vassoio con il cibo e le bevande, che si stavano raffreddando. L’orologio del nonno risuonò dodici rintocchi. La moglie prese il telecomando e, cercando di assumere un tono allegro, disse - Pronti per il film di Natale? -. Lei accese il televisore e poi fece per finire la sua tazza di caffè ma il marito gliela prese di mano prima che potesse portarla alla bocca. – Sarà freddo, vado a preparartene un altro. E per te della cioccolata, invece. Oggi è Natale e ci meritiamo il meglio – Si alzò, prese le tre tazze e il vassoio poi si avviò in cucina. Aveva bisogno di stare da solo a pensare, per poco. Mentre preparava il caffè sentiva provenire dal soggiorno i dialoghi ridicoli di un vecchio film, che avrebbe avuto il solito lieto fine. E loro? Loro avrebbero avuto un lieto fine, con gli scienziati che se ne sarebbero venuti fuori con qualche miracolosa cura per il terreno, con qualche pozione magica in grado di restituire la salute agli alberi morenti. O la prospettiva rimasta era solo quella che si sarebbero addormentati una delle prossime sere senza più svegliarsi? Non voleva pensarci ma non riusciva a smettere. Alla fine si disse che, se quello era il loro destino, lo avrebbe accolto. Gli bastava essere insieme alle due persone più importanti della sua vita e avrebbe reso i momenti che il fato gli avrebbe concesso con loro indimenticabili e unici.
Prese il vassoio di resina trasparente e ci mise sopra le tazze, mentre faceva bollire il surrogato sintetizzato che chiamavano “caffè”. Sapeva bene che tutto ciò che mangiavano e bevevano era frutto di ricerche chimiche e dell’ingegneria organicoalimentare, che permetteva di replicare i nutrienti che permettavano a loro umani di vivere. Erano tutte repliche di ciò che era stato disponibile nel passato. Aveva letto di distese di piantagioni di piante di caffè, i cui chicchi venivano tostati e poi macinati e alla fine filtrati in una bevanda popolare ovunque. Loro dovevano accontentarsi di surrogati chimici. Versò la bevanda scura nelle tazze mentre scaldava quella per il bambino. Dalla dispensa trasse fuori le gallette e da un altro altri ingredienti con cui farcirle, una crema bianca dal sapore di “formaggio” (così recitava l’etichetta, ma come poteva esserne sicuro) che vi spalmò sopra aggiungendo poi il surrogato alimentare del pesce. Altri li farcì con lo spalmabile e un’altra crema di color rosso acceso e con tutto quello che gli sembrò appropriato per quella giornata. Si chiese cosa mangiassero nelle ricorrenze speciali prima di ridurre la Terra come era ora, condannando la loro generazione a quella lenta agonia. Aveva letto nei libri qualcosa ma non era mai riuscito davvero a farsi un’idea di come potesse essere.
Reggendo in equilibrio i piatti e il vassoio tornò in salotto. – Sorpresa, quest’anno il pranzo di natale sarà un po’ diverso ma l’importante è celebrare questa giornata insieme. Porse il piatto e la tazza di bevanda al gusto di cioccolato (così diceva l’etichetta ma poteva essere qualunque cosa, i chimici sembravano essere stati capaci di riprodurre ogni sapore mischiando ingredienti. In un certo senso quello che erano stati in grado di produrre sembrava una magia per gente come loro. Non solo il sapore ma, stando a quanto recitavano le confezioni anche i nutrienti necessari a far funzionare un corpo umano) al figlio, che l’afferrò biascicando un grazie mentre cominciava a bere con gusto prima di addentare il suo panino.
Guardarono il film, una storia d’amore travagliata ma di cui già si poteva immaginare il finale con riconciliazione, e poi quello che venne proposto dopo e quello dopo ancora, ridendo delle situazioni ridicole e emozionandosi per quelle drammatiche. Giocarono con il figlio e si divertirono, si raccontarono storie del passato e cercarono di immaginarsi il futuro.
Epilogo
Fu nel cuore della notte che l’ossigenometro fece partire l’allarme nella casa e in molte altre. Nella piantagione un albero si schiantò al suolo come se fosse stato colpito da un forte folata di vento, ma non c’era vento. L’aria era immobile, pesante, con uno strano odore gassoso.
Nella casa con l’albero di Natale, l’ultimo rimasto, nessuno si alzò per spegnere la sirena, nessuno si mosse nei letti. I corpi di un giovane uomo, di sua moglie e del loro figlioletto, dormivano ora un sonno eterno stretti in un abbraccio senza fine.
2 commenti
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