In fondo all’oceano una violenta esplosione devasta una base di ricerca che sta trivellando il fondale. Solo uno sparuto gruppo di uomini sopravvive, e l’unica speranza è quella di scappare prima che il nocciolo della stazione esploda. Norah, Rodrigo, Paul, Emily e Liam guidati dal capitano Lucien, sanno che l’unica possibilità di salvezza è affrontare gli abissi raggiungere una base vicina. Ma, oltre alla pericolosità dell’impresa, un’altra presenza inquietante mette in pericolo la vita dei sopravvissuti.
Un po’ The Abyss e un po’ Alien, Underwater è l’ennesimo clone di un filone che pare aver già detto tutto. Con qualche piccola variazione sul tema, niente presentazione dei personaggi ma il film parte da subito con il disastro e l’introduzione della storia viene liquidata velocemente nei titoli di apertura, è la solita storia già raccontata. Parata di personaggi stereotipati, dall’eroina Kristen Stewart che esibisce persino lo stesso slippino di Sigourney Weaver in Alien, al paterno capitano Vincent Cassel, fino al solito giullare del gruppo che si porta dietro un coniglietto di peluche alla coppia di innamorati. Sullo sfondo l’abituale mostro, questa volta abbinato, tanto per cavalcare la moda del momento, da un messaggio ecologista: abbiamo scavato troppo in profondità, stiamo distruggendo il pianeta e abbiamo risvegliato il mostro. Forse ce lo siamo meritati?
Anche sul piano della messa in scena Underwater di William Eubank, arrivato dal cinema indipendente e qui alla sua prima esperienza con una major, si limita a svolgere un corretto compitino, con primissimi e claustrofobici primi piani della Stewart dentro il casco, apparizioni della creatura tra le ombre, esplosioni devastanti e morti raccapriccianti. Anche il designer del mostro assomiglia al ben noto xenomorfo, in versione solo più molliccia.
D’altra parte va anche detto che Underwater sa perfettamente cos’è, e non ha alcuna velleità. Da film di serie B, più che sulla scrittura il suo fascino sta nei particolari, come le tute da immersione degli eroi e, più ingenerale, l’estetica di una tecnologia che pare uscita a tratti dagli anni settanta. Chi andrà al cinema non può aspettarsi nulla più di questo.
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