Dario vive isolato in un casolare in Veneto ed ha un unico grande sogno: quello di abbandonare la Terra ed atterrare sulla Luna con un razzo di sua invenzione. Il suo primo tentativo però va male e, a causa di un incendio provocato da un guasto della navicella, viene arrestato e fermato dalla polizia. A causa del suo carattere scontroso rischia un ricovero coatto in un istituto per malati mentali, se non fosse per l’arrivo inaspettato del fratellastro Mario che gestisce, insieme alla madre a Roma, un negozio di ferramenta. Nonostante si siano incontrati solo una volta da piccoli tra i due si istaura subito un legame, grazie all’infanzia comune segnata dall’abbandono del padre. Ma se Mario ha trovato una sua dimensione nell’affetto della madre e nel lavoro, Dario riversa nella sua ossessione per lo spazio l’unico sogno che sente ancora intatto nella sua vita, puntando tutto sull’obbiettivo di raggiungere la Luna.
Dopo Finché c’è prosecco c’è speranza, con Il Grande Passo Antonio Padovan torna insieme a Giuseppe Battiston a girare in Veneto raccontando ancora una volta una storia ambientata tra le campagne di questa regione. L’intento evidente del film è quello di incitare lo spettatore a perseguire i propri sogni per quanto assurdi possano apparire, poiché se ci credi davvero nulla è impossibile. Retorica così stucchevole e zuccherosa, per di più immersa in un ritratto di provincia che sembra direttamente uscito dagli anni cinquanta, difficile da sopportare. Tanto per capirci siamo per l’ennesima volta di fronte al “romano”, con tanto di suoneria sul cellulare con l’inno della Roma, che finisce in un paesino in Veneto, non ha mai visto in vita sua una mucca e non la sa distinguere da una pecora.
Nel suddetto paesino, che nella realtà non esiste più per lo meno da trent’anni, ci sono azzeccagarbugli, vecchi sdentati al bar che cambiano canale a una tv condivisa, il solito imprenditore che ha fatto i soldi e ha la villa (ed è pure milanese), la ragazza bella e buona di cui il protagonista è invaghito, e così via.
Ma è soprattutto la mancanza di un barlume di cinismo a rendere difficile da digerire una sceneggiatura (scritta da Padovan e da Marco Pettenello) che corre su un binario dritto da compitino in classe. L’unica cosa che salva Il grande passo dal non essere un disastro completo sono Battiston e Stefano Fresi e, soprattutto quest’ultimo, fa il possibile per conferire al suo personaggio una dimensione fragile e poetica.
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