Capitolo finale per l’era Daniel Craig.
Come la sua controparte attoriale, James Bond, ormai stanco della vita da agente segreto, vorrebe solo riposarsi. Ma come l’attore è stato richiamato in servizio, anche il personaggio si ritroverà suo malgrado in azione, trascinato da Felix Leiter (Jeffrey Wright) in una operazione di recupero che si rivelerà essere un tassello di un progetto molto più ampio, messo in atto da un nuovo e misterioso nemico, le cui origini sembrano intrecciate con la storia personale dell’amata Madeleine (Léa Seydoux) e con quella del supercattivo per eccellenza della saga bondiana, Ernst Stavro Blofeld (Christoph Waltz). Nel frattempo però all’MI6 non sono stati ad aspettare il suo ritorno. Una nuova e capace agente (Lashana Lynch) ha preso il nome in codice che fu di Bond: l’iconico 007.
È tempo di tirare le fila dell’arco narrativo iniziato nel 2006 con Casinò Royale. A differenza di quanto avvenuto per film con i precedenti attori (Sean Connery, George Lazenby, Roger Moore, Timothy Dalton e Pierce Brosnan), questo ciclo nasce con una sua continuità interna, della quale Spectre del 2015 non aveva chiuso tutti i dettagli.
Per il gran finale vengono quindi radunati intanto i vari i personaggi della saga, la famiglia allargata composta da M (Ralph Fiennes), Moneypenny (Naomie Harris), Q (Ben Whishaw), Bill Tanner (Rory Kinnear), Felix Leiter, Madeleine e, ai quali aggiungere la nuova 007. Ma parte della “famiglia” a loro modo, sono anche i cattivi, ovvero Blofeld e il nuovo antagonista Safin (Rami Malek).
Come spesso capita nelle riunioni di famiglia o nelle rimpatriate tra amici, si rende conto che nonostante la loro durata, non si è riusciti a stare con tutti allo stesso modo. Anche in questo caso, non tutti i personaggi hanno ricevuto un’attenzione proporzionata alla loro importanza nell’economia della storia. Se tutto il “gruppo MI6” ha mantenuto il rilievo che merita, assolutamente sotto tono è l’esplorazione delle motivazioni e delle azioni dell’antagonista, alla cui mancanze nella caratterizzazione attribuisco pari demerito alla sceneggiatura e alla recitazione monocorde di Malek.
I film di Bond sono da sempre storie semplici ma con un intreccio complicato. Questa volta le mancanze della sceneggiatura, frutto di revisioni e riscritture che l’hanno resa pasticciata e con parecchi vicoli ciechi, rendono farraginoso seguire i 163 minuti di un film che poteva e doveva durare almeno 45 minuti in meno. Non solo riducendo la lunghezza estenuante di alcune sequenze, ma anche evitando di aprire riferimenti e sottotrame lasciate penzolare senza scopo.
Nulla da dire con la collezione di momenti iconici. Questo film contiene delle sequenze d’azione che entreranno nei posti più alti della classifica delle migliori scene bondiane: l’inseguimento a Matera, la fuga nei boschi nebbiosi della Norvegia e la “festa” a Cuba tra tutte. Quest’ultima con una strepitosa Ana de Armas, della quale è avvertibile quanto sia sia divertita nella caratterizzazione dell’agente Paloma, un personaggio che avrebbe meritato molto più spazio.
Poi il resto del campionario c’è tutto: pletore di scagnozzi mandati inutilmente al massacro, così convinti di poter fare la differenza da suscitare tenerezza; il killer irriducibile destinato a sopperire solo nello scontro finale; lo scienziato corrotto; vodka martini agitati e non mescolati; belle auto; belle donne; gadget tecnologici di ogni tipo; la base faraonica del cattivo destinata ovviamente a esplodere nel finale.
Tutti gli appassionati di lunga data riconosceranno l’autentico saccheggio compiuto per dare atmosfera a questo film. Dalla base del cattivo, rivista in chiave brutalista, che rifà il verso a quella di Dr. No, il primo film della serie, alla ripresa del tema We have all the time in the world, da uno dei film più sottovalutati della serie, ovvero Al servizio segreto di Sua Maestà. Ma dopo ventiquattro film era difficile non cadere nell’auto citazionismo, per un film che in fondo ha tra uno dei suoi scopi quello di celebrare la fine di un ciclo.
No time to die di Cary Joji Fukunaga è alla fine l’ennesima occasione persa di un ciclo che ha avuto un buon inizio con Casinò Royale, ma che dopo aver raggiunto il suo apice con Skyfall non è riuscito più a mantenersi allo stesso livello.
Chiuso con qualche rimpianto il capitolo Craig, a questo punto è tempo di guardare avanti. È indubbio che, quando si sarà esaurito il ciclo vitale di questo film, prima o poi sapremo come e quando Bond tornerà.
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