- L'antefatto
- L’arrivo di Recchioni
- Il Ciclo della Meteora
- Dopo la Meteora
- Cosa rimane oggi della rivoluzione tanto annunciata?
- Dylan e Samuel
- Tiriamo le somme
- Quale il futuro per Dylan Dog?
L'antefatto
Anno 2013: la Bonelli annuncia che Roberto Recchioni prenderà il posto di Giovanni Gualdoni come nuovo curatore di Dylan Dog. È il papà di Dylan in persona, Tiziano Sclavi, a dare la notizia nel redazionale del numero 324 L’Odio non Muore Mai (08/2013), sottolineando come questo avvicendamento sia stato fortemente voluto da lui nei modi e nelle persone, per un rilancio del personaggio.
Anno 2022: a quasi 10 anni di distanza, quali sono gli esiti a cui ha portato questo rilancio? Osserviamoli insieme cercando di tirare le somme.
L’arrivo di Recchioni
Le motivazioni del cambio di curatore, a detta dei molti, furono principalmente due, capaci di mettere d’accordo sia Tiziano Sclavi, il creatore di Dylan Dog, che la casa editrice. Da una parte una ragione creativa. Agli occhi del suo creatore, da tempo il personaggio e le storie apparivano ormai svuotate, non più capaci di graffiare come un tempo. Quasi che autori e curatore si limitassero a fare il compitino, riproponendo strutture già collaudate e abusate. Dylan aveva perso quella carica trasgressiva e innovativa che ne aveva decretato lo straordinario successo di pubblico e critica tra gli anni ’80 e ’90. Insomma, un personaggio che si era allontanato dall’idea originaria del suo papà e che proprio Sclavi avrebbe voluto far tornare agli antichi fasti. Dall’altra quella economica. Una ragione chiaramente legata a doppio filo alla prima: cioè una cronica, costante, emorragia di lettori che, proprio come Sclavi, erano stanchi di storie ripetitive, a tratti noiose, che sembravano non avere più niente da dire. Un rilancio, dal punto di vista della Bonelli, forse avrebbe potuto invertire la tendenza e, chissà, magari anche portare nuovi lettori tra i giovani.
Il primissimo periodo fu di progressivo assestamento: una casa editrice che programma e mette in cantiere storie e albi anche con due anni di anticipo non può cambiare dall’oggi al domani. Il vero cambio di paradigma avvenne, quindi, con il numero 337 Spazio Profondo (10/2014). Un albo scritto in prima persona da Roberto Recchioni e disegnato da Nicola Mari, uscito anche con una copertina alternativa realizzata da Giovanni “Gipi” Pacinotti, e, come tutti gli albi celebrativi della casa editrice di via Buonarroti a Milano, a colori. Il cambio di corso era stato sottolineato anche da un piccolo, ma evidente, cambiamento fin dalla copertina: nel logo l’ombra del nome Dylan Dog non sarebbe più stata colorata, ma trasparente.
Da quel numero in poi si susseguono a ritmo serrato una serie di piccole rivoluzioni che non vanno a toccare il personaggio, ma il mondo in cui si muove e, parzialmente, i suoi comprimari. Bloch va in pensione, ma diventa quasi più presente di prima, almeno come personaggio coinvolto nelle storie e non solo come mero deus-ex-machina utile a risolvere le situazioni. Il suo posto a Scotland Yard viene preso da due nuovi investigatori: Tyron Carpenter (che considera Dylan solo un truffatore) e Rania Rakim (che, invece, gli concede a volte il beneficio del dubbio). Contestualmente viene introdotto un nuovo arcinemico: John Ghost, un magnate della tecnologia, proprietario di una multinazionale che sembra una summa delle teorie del complotto su Elon Musk, Bill Gates e Steve Jobs. Nel frattempo, Groucho acquista un cellulare (proprio dell’azienda di Ghost) e gli sfondi di Londra cambiano leggermente, inserendo un po’ più di frequente elementi architettonici contemporanei.
Il tentativo di cambiare qualcosa per rendere la testata più connessa al contemporaneo, se non all’attualità (cosa comunque difficile visti i tempi medi di realizzazione di un albo), è evidente. Così come sembra evidente, in particolare negli albi scritti da Paola Barbato, l’intenzione di collegare sempre più gli albi, anche se ancora caratterizzati da storie autoconclusive, con sottotrame orizzontali che possano svilupparsi nel corso del tempo (Chi è realmente Groucho? Quale segreto nasconde? Chi ha acquistato l’appartamento di Dylan per poi regalarglielo e perché? Ma anche personaggi ricorrenti e diversi altri misteri). Purtroppo quest’ultima idea si scontra con storie che sfuggono al pieno inquadramento in questa nuova ottica, dando l’impressione che il processo proceda a singhiozzo.
Il tentativo di rilancio, che, come si era detto, era stato fortemente voluto da Sclavi in persona, porta anche il papà di Dylan Dog a tornare a scrivere ad anni e anni di distanza dal suo ultimo albo. Non è un caso che la prima delle due storie da lui sceneggiate, il numero 362 (10/2016), si intitoli proprio Dopo un lungo silenzio. Sia questo che il successivo, il numero 375 Nel Mistero (11/2017), sono volumetti che potremmo definire genuinamente sclaviani e che presentano un Dylan atipico rispetto a quello a cui ci si era abituati negli ultimi anni. La scrittura di Sclavi ricalca più lo stile adottato nei suoi romanzi o nella graphic novel Le Voci dell’Acqua, uscita all’incirca nello stesso periodo per Feltrinelli Comics, che quello di una scrittura seriale. Lo stesso Dylan, in queste storie, appare a tratti come un mero pretesto per raccontare ciò che sta a cuore all’autore, piuttosto che come il vero protagonista delle vicende (una tendenza che già si poteva notare, qui e là, nel periodo d’oro della testata, ma con toni molto diversi).
Il Ciclo della Meteora
Di lì a poco viene presentata quella che viene descritta, ai lettori, come una vera e propria miniserie evento all’interno della serie regolare: il Ciclo della Meteora. Una serie di albi apparentemente in stretta continuity, caratterizzati dal pericolo incombente di un asteroide destinato a schiantarsi sulla Terra, distruggendola. Il primo numero del ciclo, scritto da Recchioni, risulta fin da subito divisivo: da una parte quelli che ne criticano alcune soluzioni estremamente pop (per esempio la balista montata sul maggiolone), dall’altra chi ne apprezza il tentativo di tornare a un maggiore spessore del personaggio di Dylan, mettendolo di fronte a scelte morali non facili, forse impossibili, così da farne emergere il lato più umano. Evidente il tentativo di riprendere il mantra sclaviano “i mostri siamo noi”, proprio quello che ne aveva decretato il successo rendendolo un fenomeno di costume.
Se ci sono delle tematiche che ritornano nella scrittura del curatore, questa è proprio una di quelle, basti pensare al numero 311, Il Giudizio del Corvo (07/2012), uno dei primissimi albi scritti da Recchioni per la serie regolare. Eppure, per molti lettori, questo non basta, al contrario il personaggio viene tacciato di “buonismo” e di esser stato snaturato perché, a loro dire, ai loro tempi Dylan avrebbe sparato in testa ai mostri, invece di tendergli la mano.
Fatichiamo a concordare con una simile affermazione, ma, forse, è meglio soprassedere.
Dopo il primo numero di introduzione, quando il Ciclo della Meteora dovrebbe entrare nel vivo, però, assistiamo a un passo indietro. Da una parte le sottotrame portate avanti, con alti e bassi, fino a quel momento vengono apparentemente tutte accantonate per far spazio unicamente alla meteora. Dall’altra ci troviamo di fronte a storie in gran parte autoconclusive, alcune anche molto buone, ma in cui la minaccia di questo asteroide rimane sempre sullo sfondo, a volte appena accennata all’inizio o alla fine dell’albo. Così come in precedenza, e forse anche di più, da lettore si ha spesso la sensazione di tenere in mano sceneggiature riadattate e ficcate dentro alla continuity (se così si può chiamare, visto che di vera continuità da un numero all’altro c’è ben poco) in maniera pretestuosa, giustificando tutto quanto di strano accade con “è colpa della meteora”. Fatto che fa apparire l’asteroide come una sorta di deus-ex-machina che va bene per qualsiasi cosa e, al contempo, toglie la possibilità di sviluppi più interessanti (in pratica, esattamente lo stesso discorso che si era fatto su Bloch e sulle motivazioni per mandarlo in pensione).
Nel mentre che l’asteroide si avvicina e il conto alla rovescia prosegue, il logo in copertina si ricopre sempre più di crepe, come fosse prossimo ad andare in pezzi.
E la fine arriva, proprio a cavallo tra il numero 399, Oggi Sposi (10/2019) e il 400, E Ora, l’Apocalisse! (11/2019). Due numeri di cui si è già parlato tanto, e su cui cercheremo di spendere poche parole. Letti di fila, le intenzioni del curatore della serie emergono in maniera chiarissima: chiudere tutte le sottotrame pendenti da prima del Ciclo della Meteora, realizzare un albo celebrativo per lettori e autori che strizzi l’occhio a quelli degli anni ‘80/’90 (tantissimi i disegnatori coinvolti, così come i volti noti che fanno capolino tra gli invitati al matrimonio), fare notizia e offrire a possibili nuovi lettori un punto d’inizio per iniziare la serie, senza bisogno di leggere 400 numeri per capire i rapporti tra i personaggi e le vicende pregresse (un po’ nello stile dei comics americani, che, a furia di reset e reboot, offrono ciclicamente questa possibilità a chi volesse iniziare a seguire una certa testata).
Dylan Dog 399: Oggi Sposi
L'albo in cui Dylan Dog si sposa, si conclude il ciclo della meteora, e tanto altro ancora!
LeggiDylan Dog 400: E ora, l'Apocalisse!
La recensione del numero 400 di Dylan Dog uscito in anteprima a Lucca Comics & Games 2019.
LeggiL’operazione riesce, ma a metà.
Un solo albo, il 399, per tirare le fila di tutto quanto lasciato in sospeso prima della meteora, più la meteora stessa, risulta troppo poco. Perché quelle sottotrame erano state lasciate da parte e non se ne era pressoché più parlato per tutto il Ciclo della Meteora? Perché riprenderle tutte in una volta? Tutto avviene troppo in fretta e senza pathos. I disegni a tratti sono fenomenali, ma non basta. Gli avvenimenti sono narrati in maniera così frenetica (per far stare tutto in sole 98 pagine) che anche il matrimonio (SPOILER!) tra Dylan e Groucho sembra una cosa buttata lì solo per far parlare. In realtà la cosa ha assolutamente senso e, soprattutto, i lettori di vecchia data della serie avrebbero potuto/dovuto apprezzare molto questa scelta. Purtroppo il modo in cui è presentata è, come si diceva prima, tirata via. Succede troppo, troppo in fretta. Manca il tempo per assimilare la situazione e farsi coinvolgere dagli eventi narrati, prestando così il fianco alle critiche di chi taccia l’albo di esser solo un pretesto per finire sui giornali (quelle palesemente omofobe, invece, di chi non lo ha neanche letto o lo ha volutamente frainteso, non le prendiamo neanche in considerazione).
Con simili presupposti, cosa aspettarsi dal 400? Semplicemente la storia più sclaviana mai scritta da Recchioni: elementi surreali, citazioni continue, un continuo ribaltamento della realtà e del punto di vista, il tutto permeato da un altro dei topoi narrativi che Sclavi e Recchioni condividono per antonomasia: la metanarrazione. Se già aveva fatto capolino nel 399, nel 400 il permearsi tra opera e autore, tra personaggi e lettori diventa centrale. Dylan e il suo mondo hanno necessità di morire, di essere distrutti, per poter rinascere. E rinascere liberi. Liberi dal giogo del continuo paragone con un passato che, in quanto tale, non può tornare. Liberi da un padre padrone che, col suo esempio irraggiungibile, ha implicitamente stabilito le regole di quel mondo e, così facendo, l’ha relegato a un perpetuo ripetersi sempre uguale, senza possibilità di evolversi e adattarsi al mondo fuori. Dylan, personaggio nato per rompere gli schemi, per essere rivoluzionario, al passo coi tempi, capace di parlare ai giovani con il linguaggio dei giovani, deve infrangere il rapporto con il suo creatore per non tradire se stesso.
Il messaggio è giusto, ma è anche l’ennesima provocazione di Recchioni che si rivolge direttamente a chi non vuole i cambiamenti, dicendo loro che stanno sbagliando. Dylan Dog è un personaggio nato per parlare del contemporaneo. Così, negli anni ’80 parlava dei problemi di quegli anni. Ma nei ’90 cambiava, si evolveva per parlare delle nuove criticità che si erano presentate. Non dimentichiamo che fu uno dei primi fumetti da edicola al mondo ad affrontare direttamente il tema dell’AIDS, mettendo in scena la morte di un personaggio per questa malattia (lo splendido e tristissimo numero 88, Oltre la Morte, 01/1994). Che senso ha, quindi, che smetta di rimanere al passo con i tempi e poco a poco si distacchi dal vissuto di tutti i giorni per rimanere confinato a una immutevole zona del crepuscolo, dove è sempre e per sempre la fine degli anni ’80?
Se Dylan Dog non può (non deve secondo alcuni) parlare dell’oggi, è ancora, davvero, Dylan Dog?
Inutile dire quanto, proprio questo numero, sia stato estremamente divisivo, allargando ancora di più la frattura tra un certo pubblico e il curatore.
Dopo la Meteora
Con il numero 401, L’Alba Nera (12/2019), si cambia ancora. Si assiste a quello che appare come il vero cambio di paradigma della serie, da quando Recchioni ne è diventato il curatore.
Ci sono voluti solo 6 anni.
A prescindere dal giudizio che ciascuno può dare alla miniserie 666, se sia piaciuta o meno, rimane il fatto che, da lettore, si ha l’impressione che finalmente, dopo i tanti, innumerevoli, annunci di cambiamento, qualcosa sia cambiato davvero. Non più storie autoconclusive con solo vaghi rimandi a una continuity claudicante, che appaiono in realtà tanto spesso come adattamenti di storie già in cantiere a cui vengono modificati solo un paio di dialoghi, ma una vicenda di più ampio respiro, portata avanti albo dopo albo per tutti i 6 numeri della miniserie. Una miniserie che si assume, inoltre, l’onere di ridefinire le origini del personaggio andando a fare ordine, dando una coerenza ad alcune cose viste nei primissimi numeri della testata quando ancora lo stesso Sclavi stava prendendo le misure alla sua creatura. E strutturando, al contempo, i confini del nuovo mondo in cui ci si muoverà, introducendo personaggi secondari ricorrenti e cambiandone o rimuovendone altri.
Dopo tanto aspettare, qualcosa di nuovo (quantomeno nei confini della serie). Qualcosa di diverso. Qualcosa capace di far prendere una boccata d’aria a una testata che, nonostante i (o a causa dei) vari (mezzi) tentativi, sembrava incapace di rinnovarsi.
Mentre, mese dopo mese, gli albi escono, avvicinandoci sempre più alla conclusione di questa miniserie, i lettori vengono a sapere che altre miniserie sono in programma. Sarà questa la nuova realtà della testata: cicli di 3 o più albi, fino a 10 o 12, tutti scritti dallo stesso autore, che porteranno avanti storie di più ampio respiro, alternati, qui e là, da uno o due albi autoconclusivi.
Sembra la rivoluzione tanto annunciata fin da quelle prime parole di Sclavi nel 2013. Perché, altrimenti, chiamare Recchioni, se non nel tentativo di portare in Bonelli un po’ dell’innovazione che aveva fatto del suo John Doe un personaggio di rottura quasi al pari del Dylan dei tempi d’oro?
Ma il cambiamento dura, in pratica, solo quei 6 numeri o poco più.
Finita la miniserie 666, ecco un albo autoconclusivo, poi un altro.
Poi l’annuncio: torna Chiaverotti! Gaudio e giubilo anche tra i fan di vecchia data che mal digeriscono il curatore. Il ritorno del papà di Brendon e Morgan coinciderà con la ricomparsa di un personaggio storico come Mana Cerace. I presupposti sono dei migliori, visto che firmerà un miniciclo di 3 numeri. E l’inizio è davvero così, il numero 409, Ritorno al Buio (10/2020) ci presenta un Chiaverotti in splendida forma, capace di confezionare una storia di Mana Cerace che è al contempo una nuova vicenda del personaggio, ma anche una sorta di reboot e un modo per portare avanti alcuni elementi della nuova continuity iniziata con la mini 666. L’equilibrio tra vecchio e nuovo, tra domande e risposte, funziona, la magia sembra riuscire. Con i due numeri successivi, però, qualcosa si spezza: la vicenda si sfilaccia troppo, quasi che si fosse allungato il brodo per riempire più albi di quanti ne fossero realmente necessari.
Dopo l’uscita di Chiaverotti, per rimanere in tema, il buio.
Letteralmente.
Gli albi validi, anche molto belli, non mancano. In fondo il livello qualitativo della Bonelli è sempre stato altissimo, per cui è pressoché impossibile imbattersi in numeri realmente mediocri. Certe storie, poi, sembravano davvero pronte a lasciare il segno, una su tutte il numero 416, Il Detenuto (04/2021), sceneggiatura di Mauro Uzzeo e disegni di Arturo Lauria. Una storia come non se ne leggevano da tempo: tesa, graffiante, per niente autoindulgente e che ti prende a pugni nello stomaco, accompagnata da disegni altrettanto non facili e, per questo, bellissimi. Un albo come dovrebbe essere sempre Dylan Dog, non qualcosa per far passare il tempo, ma che ti costringe a mettere in funzione il cervello.
Storia autoconclusiva, dopo storia autoconclusiva, però, si fa sempre più evidente l’assenza di quei cicli, anche lunghi, che erano stati tanto promessi. Poco a poco, poi, anche gli elementi di contesto e di contorno, che sembravano dover far parte di questo nuovo corso della testata, vengono a sparire.
Cosa rimane oggi della rivoluzione tanto annunciata?
Bloch è sovrintendente, ma, a parte essere un superiore di Tyron e Rania (almeno formalmente, visto che non li si vede quasi più), fa né più né meno quello che ha sempre fatto nel “periodo Gualdoni”. A questo aggiungiamo che si vede raramente e che ogni traccia del suo rapporto di parentela con Dylan, che anzi avrebbe potuto portare a sviluppare molto il loro passato insieme, sembra pressoché scomparso, salvo qualche sparuto “figliolo” al posto di “old boy”. Anche gli episodi legati al passato di Dylan, quando era un poliziotto alle prime armi, che si diceva avrebbero contraddistinto il magazine (e che davano l’idea di una visione a 360° del personaggio, in cui ogni testata ne portava avanti un aspetto in modo coerente), non sono più pervenuti. Tyron e Rania compaiono a sprazzi e quasi esclusivamente come mere comparse. La tecnologia è pressoché sparita, nessuno sembra più usare cellulari e pc, non solo Groucho che avrebbe dovuto fungere da cavallo di troia, ma perfino i comprimari, quasi si fosse fatto un salto indietro nel tempo di trent’anni.
In generale, il mondo in cui si muove questo “nuovo” Dylan post-400 non è stato sviluppato. Non sappiamo quasi nulla della realtà in cui ci troviamo, dei comprimari, dei personaggi fissi che lo animano. E quei pochi che abbiamo intravisto non sono stati approfonditi, anche se da una frase qui e una frase là sembravano avere una storia potenzialmente interessante dietro, rimanendo bidimensionali. Il poco che ci è stato detto, è ciò che abbiamo letto nella miniserie 666 di Roberto Recchioni e nelle due brevi storie sugli Special firmate da Paola Barbato. Nessun altro ha contribuito a creare un universo coerente per Dylan, tutti si sono limitati a storie il più possibile anonime e asettiche o, al massimo, a proseguire in un proprio percorso di poetica personale (come nel caso di Carlo Ambrosini). Ghost stesso, personaggio che avrebbe dovuto divenire una costante della serie, ha fatto la sua apparizione l’ultima volta e metà del miniciclo di Mana Cerace, cioè il 410, La Notte Eterna.
In edicola sta uscendo il 434 (10/2022), più di venti numeri che significano quasi due anni. È vero che agli inizi di Dylan Dog si dovette attendere il numero 25, Morgana, prima di rivedere in azione Xabaras (a proposito, pure lui è sparito fin dal numero 402) dopo il numero 1, ma parliamo di un altro periodo e di un fumetto che, al tempo, non aveva alcuna aspirazione di continuity. Attualmente le cose dovrebbero essere un po’ diverse, o almeno così erano state presentate.
Al di là di personaggi sotto-utilizzati e di premesse tradite, ciò che sembra mancare è una direzione.
Dylan Dog naviga a vista, presentando mese dopo mese storie che, come sempre capita in una pubblicazione seriale, oscillano tra più e meno buone, ma che appaiono estremamente autoconclusive senza alcuna forma di legame le une con le altre. Molte, inoltre, sempre più potrebbero benissimo darsi il cambio con quelle della pubblicazione parallela Oldboy, nata per presentare storie ambientate agli albori di Dylan, in una sorta di perenne 1989. Ulteriore prova ne sono anche gli autori e i disegnatori: nelle intenzioni dichiarate da Recchioni, Dylan avrebbe dovuto tornare alle origini anche dal punto di vista grafico, presentandosi come qualcosa di innovativo.
Non è un caso se Sclavi scelse Angelo Stano per il numero 1, L’Alba dei Morti Viventi, con il suo stile che, per il 1986, era innovativo, di rottura, portatore di una serie di scelte stilistiche che non si erano mai viste in un fumetto da edicola (tanto che, come ormai è storia nota, il primo numero non andò benissimo nelle vendite). Allo stesso modo, il nuovo corso di Dylan avrebbe dovuto caratterizzarsi con uno stile grafico estremamente moderno: nomi nuovi o nomi conosciuti, ma tutti con uno stile ben riconoscibile e che si distaccasse dal “classico”. La conseguenza più evidente è stata che sulla serie principale abbiano esordito tanti nomi nuovi e giovani, mentre alcuni, anche dei mostri sacri della serie, siano passati in pianta stabile solo alla testata gemella o abbiano lasciato definitivamente l’inquilino di Craven Road. Ma anche questo è il passato, visto che proprio questo agosto, con il numero, il 431, Nulla è per Sempre (e già il titolo sembra metatestuale, se letto alla luce di questo articolo), abbiamo visto tornare sulla serie regolare Giancarlo Marzano e Giovanni Freghieri. E, forse perché i due autori son fin troppo abituati a muoversi negli anni ’80, le auto per le strade vengono proprio da quel periodo, così come nei panorami di Londra spicca l’assenza del London Eye, dello Shard o degli altri edifici moderni che oggi caratterizzano la capitale del Regno Unito. Inoltre, forse non troppo casualmente, assistiamo di nuovo alle vecchie dinamiche tra Dylan e Bloch, anche se almeno viene chiamato sovrintendente, ma soprattutto alla ricomparsa del vecchio nomignolo “Old Boy”, che era stato bandito dalla serie regolare. Non c’è, insomma, quasi più nessuna differenza tra le due testate, tanto da essere pressoché sovrapponibili.
Lentamente, ma in modo apparentemente inesorabile, Dylan Dog è scivolato, di nuovo, come ai tempi della tanto vituperata gestione Gualdoni, verso un mondo anonimo. Un mondo fuori dal tempo, in cui seguiamo le sue azioni, ma che potrebbe essere in un tempo e un luogo qualsiasi e che, in quanto tale, non riesce a parlarci direttamente dell’oggi (come faceva, invece, negli anni ’80 e ’90).
In queste storie non si respira una profondità di campo che possa andare oltre le 98 pagine del singolo albo.
Questo non era un problema quando la testata era nata, da una parte per il modo in cui i lettori fruivano il media fumetto (così come tutti gli altri media, a partire da film e telefilm), dall’altra perché a scrivere, mese dopo mese, Dylan Dog, c’era un autore fuori scala come Sclavi che, anche laddove se ne usciva con una storia meno ispirata delle altre, era sempre capace di spiazzarti con qualcosa, anche fosse una singola battuta, che ti faceva pensare di avere per le mani un fumetto diverso dagli altri.
Oggi, però, il mondo è radicalmente cambiato. Così come è cambiato il modo in cui si approcciano i vari media. Bonelli, da un certo punto di vista, sembra averlo intuito a sua volta, trasformandosi da qualche anno in una media-company con l’intenzione di sviluppare una serie di prodotti complementari alle IP nate con i fumetti: cartoni animati, film, serie-tv, giochi, etc. (è da poco stata finalmente annunciata la data di uscita nei cinema del film di Dampyr e riconfermata la serie su Dylan Dog, firmata da James Wan). Ma al di là dell’espansione del singolo prodotto su vari tipi di piattaforme, è cambiata anche la fruizione del prodotto stesso. Se negli anni ’80 spopolavano i “telefilm”, dalla Signora in Giallo a Derrick, da Colombo a Kojak, fino a Le Strade di San Francisco, per non parlare dei vari Starsky e Hutch, CHiPs, Hazzard, A-Team, etc. (solo per citarne alcuni), con un numero infinito di episodi autoconclusivi, oggi le cose son ben diverse. Oggi il formato che ha più successo è quello delle “serie-tv”, con episodi concatenati tra loro, trame più complesse e vicende meglio e più sviluppate, grazie al maggior tempo a disposizione. Un formato, quelle delle serie-tv, tanto vincente da aver colonizzato anche il cinema: cosa sono ormai diventati i film Marvel se non puntate di un’unica, enorme, serie?
Allora, forse, non è un caso che Sclavi (da sempre consumatore compulsivo di cinema e tv), nell’ottica di un rilancio di Dylan Dog, avesse scelto proprio Roberto Recchioni. John Doe, infatti, oltre ad avere quello spirito iconoclasta che da sempre tutti riconoscono a Dylan, aveva già fatto sua questa filosofia della continuity. La serie era sviluppata in quelle che, proprio prendendo il termine dalle serie-tv americane, erano chiamate “stagioni”. Cicli da 24 episodi l’uno, con vicende orizzontali che venivano portate avanti in maniera sistematica, numero dopo numero, fino a una conclusione che, spesso, ribaltava molti punti fermi e apriva il campo a una nuova macrotrama.
In un qualche, timido, modo, forse abbiamo assistito al tentativo di fare qualcosa di simile anche su Dylan Dog. Prima i cambiamenti e le novità introdotte nella prima fase di gestione di Recchioni, poi il Ciclo della Meteora con la sua cataclismatica conclusione e conseguente riscrittura del mondo. Dunque perché, ora, tornare indietro?
Se vogliamo dar retta a chi parla di copie vendute in calo e di desiderio di invertire la tendenza, magari dando ascolto a certi fan in rete, assolutamente contrari a qualsiasi tipo di cambiamento o innovazione messa in campo da Recchioni (quasi che il problema fosse lui, più che le modifiche proposte), ci troveremmo di fronte a un vero e proprio controsenso.
Dylan e Samuel
Il motivo è semplice: quello che alcuni fan portano come esempio virtuoso (e a livello qualitativo e produttivo sicuramente lo è, ne siamo testimoni anche noi) sarebbe Samuel Stern. Fumetto creato da Gianmarco Fumasoli e Massimiliano Filadoro per la Bugs Comics, Samuel ha più di qualche punto di contatto con Dylan Dog, non fosse altro che per il fatto che i suoi creatori sono fan di vecchia data dell’Indagatore dell’Incubo. Al di là di eventuali somiglianze o differenze tra le due testate, ciò che spicca subito all’occhio è che Samuel Stern, anche se confeziona mese dopo mese albi autoconclusivi, porta avanti, pressoché da quando è nato (oltre 30 numeri fa) una narrazione unica e coerente. Ci sono stati degli archi narrativi che hanno avuto punti di svolta a cavallo del primo e del secondo anno di pubblicazione (e ce ne aspettiamo un altro a breve), ma, oltre a quello, ogni nuovo numero è chiaramente collegato a una narrazione orizzontale in cui i personaggi evolvono, cambiano, non rimangono uguali a se stessi, ma, pur senza tradirsi, diventano progressivamente altro. Personalmente ritengo questo uno dei maggiori punti di forza del Rosso di Edimburgo, perché proprio sfruttando i meccanismi delle serie-TV americane di cui si parlava in precedenza, una volta che si sia letto un numero o due, poi diventa difficile non voler vedere come andranno a finire le cose. Se a questo si unisce una qualità media degli albi più che buona, diventa ancora più facile fidelizzare il lettore.
Per quanto riguarda la qualità degli albi, non si può dire nulla a Bonelli, ma risulta curioso notare come, proprio il tentativo di una maggiore coesione narrativa tra un albo e l’altro, il cercare di creare un universo coerente e storie collegate tra loro, siano stati i cambiamenti più osteggiati da un certo pubblico che invocherebbe, al contrario, un ritorno al passato. Salvo poi apprezzare e indicare come esempio virtuoso proprio Samuel Stern, che invece fa il contrario.
La differenza tra le due testate, però, è che mentre Samuel Stern riesce nel tentativo di dare una vera continuity alle sue storie, su Dylan Dog i tentativi, come scrivevamo prima, ci sembra siano stati realizzati a singhiozzo, continuamente inframmezzati da storie palesemente slegate dal contesto più ampio, quasi che si siano scontrati con altre dinamiche che non hanno permesso di metterli in atto in maniera completa.
Non c’è dubbio che una storia già scritta e disegnata non la si possa buttare nel cestino. Sarebbe una mancanza di rispetto per il lavoro di molti professionisti, oltre che uno spreco di soldi ed energie. Dunque non ce la sentiamo di criticare completamente questa pratica, che, comunque, se fatta nel modo giusto può passare del tutto inosservata.
Ma appare inverosimile che la Bonelli avesse in magazzino così tanto materiale già realizzato su Dylan Dog per cui, ancora nel 2019, non si potesse procedere speditamente con il nuovo corso, ma si fosse costretti ad alternare cose nuove con cose vecchie. Possibile che, nel mezzo del “Ciclo della Meteora”, a 5 anni dall’insediamento di Recchioni come curatore (cioè 12 albi per 5, 60 numeri pubblicati), nonostante il primo anno di assestamento, nonostante il tempo passato, nonostante anche una testata parallela nata proprio per assorbire le sceneggiature scritte per il precedente corso della serie, questo materiale non fosse ancora finito? Che fosse, ancora, necessario adattare delle storie alla serie regolare per non buttarle, magari togliendo spazio ad albi da far nascere appositamente, e non fosse possibile portare avanti un discorso in modo coerente, giungendo addirittura a dover chiudere tutte le sottotrame in fretta e furia, in poche pagine, nel 399?
E che dire di oggi? Dopo altri 3 anni, cioè 36 mesi/numeri? Ancora c’è necessità di “riciclare” vecchie storie, nate con altri scopi, sulla serie regolare?
Cosa è andato storto?
Tiriamo le somme
Certamente la Bonelli può aver spinto per non buttare via del lavoro già pagato, ma questo non basta per spiegare l’andamento altalenante, a singhiozzo, che ha caratterizzato tutte le varie fasi attraversate fin qui. Inoltre non avrebbe senso che la casa editrice abbia sabotato, fin dall’inizio, il rilancio di uno dei suoi personaggi di punta. Sarebbe stato un atteggiamento del tutto autolesionista.
Dunque cosa ha fatto sì che non fosse possibile andare fino in fondo con una rivoluzione che avrebbe potuto ristrutturare realmente Dylan Dog, facendolo diventare qualcosa di molto diverso e, dall’altra, a farlo lentamente annegare fino a riportarlo a una sorta di stanco status-quo?
Recchioni ha mostrato di saper gestire anche cicli di storie piuttosto lunghi, prima con John Doe e poi con Orfani, la serie da lui creata per Bonelli. Ma in entrambi questi casi potremmo dire che stava ancora giocando in casa. Serie create e gestite da lui, con un singolo albo per volta destinato ad andare in edicola, mese dopo mese e, nel caso di Orfani, con anche delle tattiche pause tra una stagione e l’altra.
Dylan Dog, invece, è un totale cambio di paradigma. Per il valore storico che ha alle spalle, ma anche per il numero di pubblicazioni che porta in edicola ogni singolo mese. La serie regolare, le ristampe, gli speciali, il Magazine, il Color Fest e da un certo momento in avanti anche l’Old Boy (poi Oldboy). Per non parlare di tutti i progetti laterali: dalla collaborazione con Salmo, poi abortita sul filo di lana, quando l’albo stava per uscire in edicola, a Daryl Zed, fino ad arrivare al cross-over Dylan Dog/Batman, rimasto allo stato embrionale del numero 0 (al netto della pandemia e del comprensibile desiderio di non bruciare il volume potenzialmente più importante, facendolo uscire nel momento sbagliato, al momento è l’unico scomparso dai radar che non abbia ancora visto la pubblicazione, al contrario dei team-up Zagor/Flash e Nathan Never/Justice League).
Flash Zagor - La scure e il fulmine
La recensione della prima storia completa dello storico incontro tra i personaggi DC Comics e Sergio Bonelli Editore.
LeggiDunque, quelle che dall’esterno sono parse storie ripescate e inserite in continuity per dovere di forza maggiore, in realtà forse sono state semplicemente dei tappabuchi, per ovviare a delle consegne andate per le lunghe. Ma, tappabuchi dopo tappabuchi, un po’ tutto il castello di collegamenti, riferimenti, concatenazioni che si voleva andare a costruire, ha finito per crollare perché mancante delle opportune fondamenta.
Fino a giungere a quello che appare un progressivo (e, come vedremo tra poco, ufficiale) ritorno al passato.
Quale il futuro per Dylan Dog?
Quale il futuro per Dylan Dog?
La strada, forse, sembra ormai tracciata. Recchioni, fin dal ciclo 666, non ha più firmato neanche un albo, ma è notizia degli ultimi giorni che sia al lavoro su alcuni numeri, disegnati da Corrado Roi, Giorgio Pontrelli e altri, destinati a uscire alla fine di quest’anno e durante il 2023. Per il Maestro delle Ombre sembra si dovrà aspettare l’anno prossimo, mentre Pontrelli sarà certamente ai disegni sull’autunnale Color Fest intitolato Utopia Modulare, una storia solo in parte fuori collana e fuori continuity, sceneggiata da Dario Sicchio e basata su un soggetto del curatore che dovrebbe, in qualche modo, riallacciarsi al numero 399 e lanciare la trilogia in uscita sulla serie regolare di lì a poco. Non è l’unico albo, infatti, previsto a firma di Pontrelli. Sempre dalle preview sappiamo che proprio Recchioni sarà l’autore di una trilogia di storie che dovrebbero iniziare a vedere la luce in edicola a novembre (in concomitanza con Lucca Comics, come ogni grande evento che si rispetti) e destinata a ridefinire nuovamente il mondo dell’Indagatore dell’Incubo. Proprio le prime tavole diffuse ci danno una idea della direzione che Dylan ha ormai preso.
“Il mio mondo sta sfaldandosi… le incoerenze del tessuto narrativo si replicano come una massa tumorale in espansione… Tutti i miei calcoli erano… sbagliati!” ci dice John Ghost dalle pagine del numero 435, Due Minuti a Mezzanotte (11/2022). Quale è questo “suo mondo” a cui si riferisce? Non può che essere quello nato dopo il 399, dopo la Meteora, e che lui ha contribuito a creare.
Le possibilità metatestuali di questa vignetta si sprecano, soprattutto alla luce del fatto che spesso Recchioni ha definito John Ghost come una sorta di suo alter-ego. La sensazione che questa promessa di sconvolgere nuovamente il mondo di Dylan vada semplicemente nella direzione di resettare tutto o quasi, diventa però certezza con le ultime dichiarazioni di Recchioni su Instagram. La decisione sarebbe arrivata da Sclavi in persona: “Signori, le cose sono molto semplici: Tiziano ha scelto così. Il creatore del personaggio, dopo dieci anni di sperimentazioni, sconvolgimenti e rivoluzioni, ha sentito il bisogno di riportare Dylan a una dimensione più “casalinga” e consueta per i lettori, e noi (la casa editrice, la redazione, il curatore, gli autori) abbiamo seguito le sue indicazioni e fatto in modo che questo fosse possibile”. Si ritorna al passato, dunque, si cancellano, come non fossero mai avvenuti, tutti gli eventi post 400 e in particolare quelli della mini 666, che avevano posto le basi per un nuovo universo condiviso mai realmente attecchito.
Se davvero le cose evolveranno nel modo che ci han presentato, però, l’unico futuro che vediamo per l’Indagatore dell’Incubo è il ritorno a quella Zona del Crepuscolo in cui era finito anni fa, confinato a un continuo e pedissequo ripetersi di stilemi usati e abusati. Questo, forse, potrà fare la felicità di qualcuno, ma segnerebbe senza ombra di dubbio la fine del personaggio per come era stato inizialmente pensato dal suo autore, con buona pace di chi parla di tradimento per i cambiamenti introdotti. Ovviamente buon per la Bonelli se questo invertirà l’emorragia di lettori anche solo per un breve periodo, per quanto ne dubitiamo molto. Ma con simili presupposti, pur se si tratta di una scelta di Sclavi, non sarebbe meglio metter fine a una simile agonia, piuttosto che continuare a violentare un personaggio che ormai nulla avrebbe a che fare con quello da lui creato?
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