Capitolo Primo
Boston. 3 maggio 2020
Joseph
La fine! La fine dei miei sogni. La fine della felicità e di quella soddisfazione mentale che non troverà più pace. La fine di quell’appagamento sessuale che non potrà più essere accontentato. La fine della famiglia idealizzata. La fine dell’ispirazione, della creazione. La Mia fine.
Senza di lei non ero nulla. Ero il Nulla. Senza di lei ero un involucro di carne pronto alla carneficina, appeso come un bue a un uncino arrugginito, in una macelleria sudicia. Grondavo sangue dalle viscere. Perdevo sangue dalla bocca e dalle narici. Figurativamente parlando, purtroppo. Senza di lei ero un burattino del destino. I fili del Fato erano cuciti nei muscoli e continuavano a scuotere la mia figura. Senza di lei non ero un musicista, uno scrittore, un uomo. Senza di lei non valeva la pena sopravvivere in quel mondo del cazzo. Senza di lei non aveva senso mangiare, bere, dormire; e, per Dio, nemmeno scopare. Senza di lei ero morto dentro.
Con mani tremanti provai a bloccare la sua ferita e quella fuoriuscita incalzante di sangue. Quella sostanza densa, calda, profumata, quasi carezzevole per le papille gustative, corse nella mia cute, colmandola con il suo potere afrodisiaco. Penetrò sotto le unghie. Si addentrò nelle pieghe del mio palmo cancellando le mie impronte. Senza di lei la mia identità sarebbe stata di poco conto. Chi ero io? Cos’ero io?
Scrutai il suo viso: i suoi bellissimi occhi erano vitrei. Sembrava una bambola di porcellana, fredda, gelida, inerme, perfetta nella sua staticità. Guardava il soffitto. Forse il cielo. Attendeva che quel Dio senza misericordia le tendesse la mano, la salvasse, dopo tutto il bene che aveva gettato in quel mondo deviato. Non ci sarebbe stato il miracolo, lei non sarebbe tornata da me.
Capitolo secondo
Agenzia 12
Hope
Mi chiamo Hope Nelson, ma per l’Agenzia 12 il mio nome è Datura Stramonium, la dodicesima Salvatrice. Lavoro per un dipartimento mondiale che prende il nome di Agenzia 12.
Sono una viaggiatrice nel tempo. Sono nata nel 1993 in una calda e afosa estate di agosto.
Tre giorni dopo la mia venuta al mondo, l’Agenzia ha bussato alla mia porta. Come ha potuto conoscere il giorno e il luogo della mia nascita? L’informazione le è stata riferita dall’Oculi Domini. Questa creatura, questa donna, all’apparenza comune, ha visioni collegate alle vite dei dodici Salvatori.
Ogni Salvatore ha un Guardiano che lo istruisce e lo segue durante le missioni. Il Guardiano è scelto dal Consiglio – dodici uomini che gestiscono l’Agenzia – dopo anni di studi storici e letterari.
La leggenda narra che, dopo la morte di Cristo, la prima Oculi Domini ebbe una visione: a causa della crudeltà dell’uomo, sarebbero nate dodici creature dalle fattezze umane, capaci di viaggiare nel tempo. Il loro compito era di proteggere gli esseri umani e fermare gli individui pericolosi intenzionati a distruggere le sorti dell’umanità. I Salvatori avrebbero viaggiato attraverso Porte Magiche distribuite in tutto il mondo. Per merito della prima veggente fu trovata una mappa, presso la piramide di Cheope, che riportava la posizione delle Porte: sessantacinque Porte Magiche e dodici Porte dei Cieli. Gli uomini di quel tempo fondarono l’Agenzia con l’intenzione di proteggere e tutela i Salvatori, le Porte e le Oculi Domini.
Non siamo immortali, anzi la nostra esistenza è fugace perché viviamo a stretto contatto con il pericolo e la morte. Alla dipartita di un Salvatore ne nasce un altro. L’Oculi Domini vede la nascita del nuovo membro e l’Agenzia si mette in moto per raggiungere e proteggere la creatura.
Il Salvatore riesce a varcare le Porte al compimento del diciottesimo anno. Quel salto gli permette di viaggiare in un altro anno, però si ritrova nello stesso luogo del passaggio. Questa regola non vale per me. Io posso spostarmi nel tempo e nello spazio, scegliendo il luogo del mio arrivo. Com’è possibile? Non lo so.
Questa è la mia storia.
***
Boston. 15 aprile 2020
Riposi il plico sul tavolino accanto a me. L’editing dell’opera doveva attendere, perché la mia concentrazione vacillava. Avevo terminato il romanzo con un notevole ritardo, spingendo la mia agente verso un esaurimento nervoso. Lucy era una donna pignola, con un palese problema del controllo. Pianificava tutto. Programmava lavoro e vita privata. La conoscevo da cinque anni e, durante quel tempo, avevo notato che il suo disturbo era peggiorato. Era la migliore nel campo, proprio a causa di quei comportamenti ossessivi che le facevano vivere la vita come se fosse costantemente sotto esame. Purtroppo non era altrettanto fortunata nella vita sentimentale: il suo matrimonio era finito perché metteva il lavoro al primo posto. Era una bella donna, alle soglie dei cinquant’anni. Aveva un fisico slanciato. Il suo viso ovale e i grandi occhi neri erano sempre nascosti da enormi occhiali. Il lavoro, che rappresentava la sua felicità, alla fine l’avrebbe annientata. Pertanto i miei ritardi nella consegna del manoscritto l’avevano destabilizzata. Le avevo spiegato che erano stati mesi duri, perché la mia seconda occupazione mi riempiva le giornate.
«Non capisco perché impieghi il tuo tempo in questo modo. I romanzi ti permettono di vivere senza dover sgobbare in altri lavori, quindi perché continui a lavorare al museo?» aveva chiesto poco tempo prima.
«Mi piace lavorare al museo» avevo risposto, chiudendo la conversazione. Non le spiegai che quel secondo lavoro era una falsa creata dall’Agenzia 12; non potevo confessare quel segreto a nessun essere umano. La scrittura invece mi aiutava a sopportare ed equilibrare gli orrori della mia vita. Senza di quella sarei impazzita.
***
Raggiunsi la chiesa della trinità in Clarendon Street verso le ore dieci. Il traffico di quella mattina era snervante. Mi mancava la mia tranquilla città natale: Sleepy Hollow. Ritornavo nella casa di famiglia quando una missione mi spossava a tal punto da dover staccare la spina. Ero una persona che amava i propri spazi, e stare a stretto contatto con altri mi procurava malumori. Durante l’infanzia e l’adolescenza avevo vissuto in una casetta di campagna. Mi svegliavo con il cinguettare degli uccelli, accompagnata dal profumo dei fiori in primavera, dal sole accalorato d’estate e dall’odore dell’erba e della terra bagnata in autunno. D’inverno studiavo accanto alla finestra del piccolo soggiorno. Quando il vetro diventava opaco, disegnavo strane rappresentazioni su quella lavagna improvvisata. Alle sedici mia madre mi preparava la merenda. Amavo i suoi panini al burro di arachidi. Era sempre stata una brava cuoca. Allestiva pranzi golosi e cene delicate. Io non avevo preso da lei. Ero un disastro in cucina.
Abbandonai quei ricordi. Sospirai tristemente. Scesi dalla mia Mini Cooper e raggiunsi il luogo di culto.
La Porta dei Cieli numero dodici era custodita in una zona privata sita sotto la chiesa. Rupert, il mio Guardiano avrebbe rilevato la sua posizione inserendo le coordinate: Latitudine: 42.350068. Longitudine: -71.075425. Lui era molto simile a Lucy, ma alle mie orecchie sembrava più petulante. Era sempre in apprensione. Temeva che da un momento all’altro qualcuno potesse attentare alla mia vita.
L’Agenzia 12 aveva mani in pasta ovunque. Aveva sedi in tutto il mondo e il numero dei suoi agenti non era quantificabile. Collaboravano con le agenzie nazionali e internazionali.
Entrai nella struttura usando la porta posteriore. M’inoltrai nel magazzino dell’archivio e chiusi l'uscio alle mie spalle. All’apparenza quel luogo sembrava anonimo e impolverato. In quella piccola sala c’erano scaffali ricolmi di raccoglitori contenenti certificati di nascita, di morte e di matrimonio. Potevi usufruirne solo su richiesta. Calai lo sportello che proteggeva le barre della corrente elettrica. Abbassai la levetta rossa centrale, circondata da altre quattro, e udii lo scatto del pannello sistemato a destra della porta d’ingresso. La barra rientrò nella sua posizione. Oltrepassai l’uscio, chiudendolo alle mie spalle. Il successivo percorso era diverso rispetto a quello appena visto: scesi uno scalone di due rampe composto da quaranta gradini in granito. Oltrepassai l’antisala arricchita dai quarantacinque quadri dei Salvatori, con la dodicesima linea di sangue, che mi avevano preceduto e avanzai presso la sala principale, dov’era collocata la biblioteca, una delle più famose dell’Agenzia. Era stata costruita durante i primi decenni del 1650 dal Consiglio di quel periodo. Il soffitto era arricchito da festoni di fiori e frutta, le arcate seguivano lo stile ionico e il pavimento era in marmo beige con striature marrone. Gli scaffali di legno collocati nella sala grande e gli armadi posti nelle sale nord e ovest ospitavano in quel periodo circa 1.000.000 volumi a stampa, 2.500 incunaboli, 12.000 manoscritti e 14.000 cinquecentine. I testi erano utilizzati per le ricerche storiche.
Due Archivisti (Tom e Oliver) avevano il compito di catalogare e sistemare i nuovi libri sugli scaffali. In quella sala lavoravano, oltre agli Archivisti, tre Bibliotecari (Carl, Beatrice e Richard) e due Amanuensi (Samuel e Cloe). Quegli ultimi trascrivevano le evoluzioni che il passato poneva in atto. Diversamente da quanto si creda, il tempo può subire impercettibili cambiamenti, e tali alterazioni mutano gli eventi.
Vi chiederete: quale effetto possono avere le flebili mutazioni sugli individui? Nessuna. Spesso gli umani tendono a dimenticare i dettagli. Ricordano la vicenda storica, senza però memorizzare ogni singolo particolare. Nel caso dovessero accorgersi che l’evento è mutato, incorrerebbero in dubbi, domande, che nessuno potrebbe avvalorare. Non è mai accaduto che una vicenda cambi a tal punto da modificare la linea temporale.
Al piano inferiore c’erano l’armeria, la sala informatica – dove cinque agenti avevano il compito di controllare ciò che accadeva nella zona tramite le telecamere del traffico – lo studio della dottoressa di quella sede dell’Agenzia e il mondo della signora Alice, la mia costumista. Era una donna di quarant’anni, dinamica, simpatica, un po’ fissata con le ere passate, e proprio a causa della sua ossessione e della conoscenza spropositata della moda, aveva il compito di vestirmi durante le missioni. Anche nella quotidianità le sue peculiarità la spingevano a indossare abiti inconsueti. Certi giorni seguiva la moda di fine ‘800, altri invece sembrava uscita da una pubblicità degli Anni ’50.
All’ultimo piano si trovavano una sala ristoro e un salone usato principalmente per le riunioni.
Mancava solo un elemento: la Porta. Era collocata presso una saletta accanto alla biblioteca. Alcuni dicono che queste Porte sono sempre esistite. L’Agenzia ha cercato di nasconderle. Ha costruito sopra la loro posizione degli edifici come chiese, musei e zone sicure.
Salutai sbrigativamente i colleghi senza fermare il passo.
Purtroppo il mio tempo era limitato. Avevo una missione in programma per quella sera, dovevo analizzare le informazioni in mio possesso. Ero a caccia. Avevamo un pericolo di entità otto: un emulatore. Dovevo scovare l’emulatore dell’Uomo con l’ascia di New Orleans.
Quel serial killer aveva ucciso otto persone tra il maggio del 1918 e l’ottobre del 1919.
La maggior parte delle vittime era stata assassinata con un’ascia. In alcuni casi gli omicidi erano avvenuti usando un rasoio.
C’erano stati due nuovi delitti, datati 1923: qualcuno aveva deciso di cambiare il passato. C’era una fazione segreta, una setta, come la definivo io, nata pochi secoli dopo la creazione dell’Agenzia, chiamata "I Pulitori". Loro credevano che noi fossimo corruzioni della natura, e quindi dovevamo essere eliminati.
Nel 1973 fummo traditi da una Salvatrice. Nessuno parla di lei, della sessantaduesima Nerium Oleander – Terza linea di sangue. Trasportò materiale cartaceo nel 720, infrangendo una delle leggi portanti dell’Agenzia. Incappò in un agguato dei Punitori che la condussero alla morte. Gli assassini rubarono i libri e quel furto gli permise di conoscere il futuro. Quel materiale gli concesse il potere di mutare la storia. Alcuni credono che la Salvatrice avesse cambiato fazione, altri dicono che fu circuita da un uomo che in realtà era un Punitore. Non so cosa sia realmente accaduto, ma so che le sue azioni hanno procurato morte e sofferenza.
Tre giorni prima avevo visitato la città di New Orleans del marzo 1919. L’Agenzia 12 di quel periodo mi aveva procurato un lasciapassare; fingendo di essere una giornalista alla ricerca di uno scoop avevo intervistato il detective che stava indagando sul caso. Pochi giorni prima era stata pubblicata una lettera recapitata alla polizia, scritta dal killer. Purtroppo il detective non mi era stato d’aiuto.
«Giudico raccapricciante una donna interessata a simili argomenti» mi aveva detto, guardandomi con inquietudine.
Comprendendo che non avrei cavato un ragno dal buco, avevo deciso di percorrere altre strade. Spesso la missione si complicava propria a causa del mio sesso. Quella sera avrei visitato l’obitorio e analizzato le vittime del 1919. In seguito avrei fatto lo stesso con le vittime del 1923 per capire se la mano dell’assassino fosse la medesima.
I viaggi nel tempo hanno una limitazione: devi aspettare ventiquattro ore fra un salto e un altro, altrimenti il corpo subisce delle ripercussioni; nel migliore dei casi puoi soffrire di nausea e vertigini, mentre nel peggiore sopraggiunge la morte tramite infarto o emorragia cerebrale.
Fortunatamente non ci sono limiti di tempo quando varchi la soglia del passato, puoi sostare in un periodo per mesi, forse per anni. Nel settembre del 2013 rimasi per tre settimane in una piccola tenuta di campagna nella Dublino della fine dell'Ottocento, dopo una missione che mia era quasi costata la vita.
Sono una persona solitaria. Devo esserlo, anche se ho solamente ventisette anni. Non ho amici. Ho avuto qualche blanda relazione incentrata sulla soddisfazione sessuale. Mi circondo dei dipendenti dell’Agenzia. L’unica estranea è Lucy. Lei è un’Ignara (persona che non conosce l’Agenzia). C’è una regola ferrea che impone la segretezza, per il bene della missione e degli Ignari.
***
La costante vibrazione del cellulare mi distrasse dalle ricerche. Era Isaac, un’agente della 12, e la mia copertura al museo. Mi chiamava solo in caso di necessità.
«Signorina Nelson, sono Isaac» rispose, usando il mio cognome, quindi intesi che non era solo.
«Il detective Kenneth ha bisogno di parlarle» spiegò in tono grave. Il detective Kenneth? Non conoscevo nessuno con quel cognome, anche se mi parve familiare.
«Okay, Isaac. Ho terminato le commissioni, sarò lì entro quindici minuti, traffico permettendo» conclusi, prima di riattaccare sbrigativamente la conversazione. Chiamai Jude: se avevi dei problemi con gli Ignari, chiamavi lui e risolveva le cose. L’Agenzia aveva degli infiltrati nella polizia e Jude era uno di loro. Gli spiegai la situazione.
«Va bene, Hope. Ti richiamo tra qualche minuto» dichiarò, prima di riagganciare. Abbandonai le ricerche e lasciai la sede. Attesi la chiamata di Jude nel parco adiacente alla chiesa.
«Ho sentito il nostro collega» spiegò in tono quieto. Era tranquillo, quindi le notizie non erano preoccupanti. «Il detective Kenneth lavora alla sezione Crimini seriali di Boston. Gli è stato assegnato un caso che vede la morte di due donne. Secondo indiscrezioni la scena del crimine è stata allestita seguendo una narrazione letteraria. Non ho altre informazioni. Probabilmente vorrà il tuo aiuto per il caso» dedusse Jude, avviluppando nelle sue parole anche le mie riflessioni.
«Salvo che tu non abbia ucciso qualcuno e hai dimenticato di avvertire l’Agenzia» continuò, con voce sarcastica ma simpatica.
«Non temere, non ho ucciso nessuno in quest’epoca.»
Purtroppo mi ero macchiata di omicidio ma per legittima difesa. Durante le missioni, se incontri un Punitore, hai due scelte: combattere o morire.
Chiusi la conversazione e raggiunsi in macchina il museo Isabella Stewart Gardner. Arrivai in ritardo, perché c’era un ingorgo stradale. Se fossi stata agli inizi del Novecento, avrei usato il cavallo. Molto più scomodo della mia Mini, ma più veloce se dovevi percorrere la città. Non gradivo le grandi metropoli, il loro caos, i mezzi di trasporto sempre in movimento, le luci dissonanti dei cartelloni pubblicitari, la folla ai semafori pronta a procedere come se fosse una mandria imbizzarrita e le persone social costantemente accompagnate dai dispositivi tecnologici anche durante una passeggiata, però non avevo alternative, dovevo risiedere vicino alla sede della Porta perché i viaggi erano all’ordine del giorno.
«Signorina Nelson, sono il Signor Kenneth» disse un uomo, bloccando la mia marcia.
Si parò di fronte a me. Mi aspettava all’ingresso dell’edificio. Avrebbe potuto attendere all’interno, invece di sostare nell’ombra come un assalitore.
Lo guardai con attenzione: era un uomo affascinante. Mi sarei aspettata un uomo meno giovane. Aveva qualcosa di familiare e quella sensazione mi sorprese. Ero certa di non averlo mai visto, ma purtroppo la mia mente non riuscì a formulare i giusti collegamenti. Si tolse i Ray-Ban neri e mi contemplò con premura, soffermandosi sul mio corpo. Alzò lo sguardo sul mio volto e quella percentuale di sorpresa, ormai fastidiosa, aumentò. I suoi occhi erano un quadro misto tra Botticelli e Michelangelo, ritraenti uno sfondo marino. Un occhio era di colore blu e l’altro di colore viola; erano profondi come l’abisso infernale che divideva il mondo umano da quello diabolico.
Allargai la visuale: il viso, che conteneva quelle gemme, era ovale, con tratti marcati. Il naso era leggermente storto (verso sinistra), probabilmente in tempi non sospetti aveva avuto qualche disavventura, che l’aveva condotto verso una rottura ossea. Dulcis in fundo c’erano due labbra furenti. L’epidermide aveva un colore comune, bocca ben delineata, frastagliata al centro, forse a causa di una delicatezza che non sapeva di possedere e ruvida negli angoli. Un pensiero gradevolmente osceno mi balenò in mente; in tale visione vedevo quelle labbra che assaggiavano le mie cosce dischiuse.
Una lieve barbetta contornava quella dimora del piacere. La capigliatura era di colore opaco, tendente al castano scuro con un taglio comune. Le punte dei capelli erano rialzate e mostravano quel brio che gli concedeva un aspetto spettinato. La carnagione era olivastra a causa dell’abbronzatura naturale. Mancavano pochi mesi al periodo estivo, quindi quel colorito era postumo di un viaggio in terre lontane. Con lo sguardo corsi sulle sue grandi mani. Avete idea di cosa può accadere se mani grandi e dita lunghe, usante a dovere, si accostassero al corpo di una donna? Orgasmo assicurato.
Era alto circa un metro e ottanta. Indossava jeans scuri, camicia color grigio scuro, anfibi sportivi e un giubbotto in pelle di colore nero che gli calzava a pennello. Ipotizzai la sua età: doveva avere circa quarant’anni. Quell’uomo sembra uscito da uno dei miei romanzi.
«Buongiorno detective Kenneth, come mi ha riconosciuto?» chiesi un po’ stupita. Ero sempre stata cinica e diffidente. I Punitori erano astuti. Forse l’uomo faceva parte di quella setta. Le nostre identità erano ben nascoste, però poteva capitare che qualcuno della nostra cerchia cantasse e quindi nessuno era al sicuro.
«Ho visto la sua foto su uno dei pochi articoli che la riguardano» spiegò in modo naturale. Evitavo di lasciare interviste, non avevo profili social, e cercavo di mantenere un profilo basso, ma inevitabilmente qualche indizio sulla mia identità da scrittrice era reperibile. Annuii.
«Raggiungiamo il mio ufficio, così possiamo parlare senza interferenze» proposi, senza attendere una risposta. Mi avviai all’interno. Percepii la sua presenza alle spalle, e quell’atteggiamento m’inquietò. Non mi piaceva avere qualcuno alle calcagna.
– Perché non cammina al mio fianco, come fanno le persone normali? – pensai.
Prima che potessi raggiungere l’ascensore e il mio ufficio (collocato al terzo piano), le stranezze di quella giornata aumentarono. Isaac mi stava aspettando nel corridoio: era un uomo poco più grande di me, alto, rossiccio nella capigliatura riccia e nella barbetta. La carnagione era bianca come il latte e il viso era sfumato di lentiggini. Accanto a lui c’era un altro uomo: era somigliante al detective che avevo appena conosciuto. Erano simili nella corporatura, nei lineamenti del volto, nei tratti delle labbra. Differivano nel colore degli occhi e in quello dei capelli; il nuovo arrivato aveva gli occhi di colore azzurro e i capelli color castano chiaro, più corti. Indossava un completo nero casual, composto da pantalone nero, camicia nera e giacca color grigio scuro. Percorse qualche passo nella mia direzione, poi notò l’altro uomo, e si rivolse a lui, con un punto di domanda dipinto sul volto. Mi fermai. I due uomini erano gemelli. Isaac mi salutò sbrigativamente prima di allontanarsi.
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