La prima stagione di Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, diffusa nelle scorse settimane su Prime Video, è finita lo scorso venerdì 14 ottobre. Ma il suo finale porta con sé una folla di domande, di dubbi e, a volte, di perplessità, esposti e dibattuti in una sessione di domande/risposte che ha avuto per protagonisti gli stessi showrunner della serie, tenutasi lo stesso venerdì, Patrick McKay e J.D. Payne. Certo, difficile dare ora un giudizio definitivo: Gli Anelli del Potere è, come hanno sottolineato gli autori, dun progetto di grande respiro e a lungo termine, ed è stato più volte ribadito che la serie avrà uno sviluppo in cinque stagioni, per cui è presto per trarre un bilancio dell’opera: ci vorranno ancora anni, dicono McKay e Payne, per capire davvero cosa ne pensa il pubblico.
C’è però una certezza, che traspare in tutta la sessione di intervista, ed è l’intensità con cui McKay e Payne sottolineano la loro vicinanza e il loro desiderio di restare fedeli e di rappresentare al meglio l’opera di J.R.R.Tolkien. Lo dicono in apertura: uno dei temi toccati dalla prima stagione (in particolare nel settimo episodio) è il senso di totale mancanza di speranza, la profonda disperazione dei personaggi davanti ai peggiori orrori del mondo, quella stessa sensazione che non solo è presente nel Il Signore degli Anelli (sia nel libro che nei film) ma che viene dall’esperienza stessa di Tolkien sul fronte della Prima Guerra Mondiale.
Insomma, non dovrebbe essere il toto-Sauron o l’Indovina Chi sull’uomo meteorite a guidare la visione della prima stagione (anche se, potremmo ammettere che qualcuno degli spettatori, tra cui chi vi scrive, potrebbe aver provato un incentivo alla visione da questo continuo gioco). Anzi, dicono i due nell’intervista, l’idea della suspence nata attorno a questi due personaggi non era nemmeno voluta. Fin dalla prima ideazione della serie, gli sceneggiatori sapevano che Sauron avrebbe dovuto esserci, nascosto, camuffato, in base alla descrizione delle sue azioni nella Seconda Era: un personaggio che lavora nell’ombra e che può assumere identità nascoste. Certo, nella seconda stagione il suo ruolo sarà diverso e, qualcuno potrebbe dire finalmente, ci accompagnerà verso linee di azione più “canoniche”, cioè più vicine a ciò che conosce chi ha letto i libri, rispetto a quanto visto in prima stagione.
Anche per quanto riguarda l’uomo meteorite, la cui identità pare svelata nel finale di stagione da una frase iconica (pronunciata da un personaggio ben preciso della versione cinematografica del Signore degli Anelli a targa Peter Jackson), gli sceneggiatori non si sbilanciano. Nell’intervista, ricordano che ci sono diversi altri personaggi che appartengono al canone e il nostro uomo meteorite potrebbe essere, senza particolari difficoltà, anche uno di loro. Peraltro, il nome che vorremmo associare a quel personaggio, il nome che è affiorato alle nostre labbra quando lo abbiamo sentito pronunciare quelle parole, per lui, in questo specifico momento della Seconda Era, non vorrebbe dire nulla. Non ancora. Se lo deve ancora guadagnare, quel nome.
Ma questo è un aspetto che dobbiamo tenere ben presente, nell’affrontare uno show che parla di avvenimenti di tremila anni precedenti a quelli che conosciamo ed è comune anche agli altri personaggi del canone che abbiamo incontrato: Galadriel non è la Galadriel della Compagnia dell’Anello (anche se possiamo intuire, dai libri, che abbia avuto un arco di evoluzione, prima della Terza Era), come Elrond non è il saggio re degli Elfi che abbiamo avuto modo di conoscere.
I personaggi canonici, dunque, ci offrono la possibilità di un inedito dietro le quinte della loro vita precedente, ma anche i personaggi appena accennati nel canone, come Miriel, offrono possibilità interessanti: così, gli eventi di settimo e ottavo episodio servono rendere particolare l’arco del personaggio della regina lungimirante, che riusciva a scorgere il pericolo nel futuro di Numenor.
Insomma, delle certezze che pensavamo di aver tratto dalla conclusione della prima stagione, solo una, l’identità di Sauron, viene confermata in questa sessione di domande/risposte. Sulla seconda stagione, comunque, gli sceneggiatori non si sbilanciano più di tanto: quello che sappiamo, per ora, conferma quanto detto sopra, che ci sarà un avvicinamento al canone conosciuto da chi ha letto il Signore degli Anelli e, aggiungeremmo, in particolare le sue appendici. Questi primi otto episodi, ci confermano McKay e Payne, servono per re-introdurre lo spettatore nella Terra di Mezzo e, perché no, per introdurre nuovi spettatori all’interno di questo sconfinato e complesso mondo, fatto di popolazioni e mondi diversi, molti dei quali non familiari anche a chi ha già fruito del Signore degli Anelli in altre forme.
Sì, perché l’ambientazione nella Seconda Era serve agli sceneggiatori proprio per questo: per introdurre qualcosa di nuovo, come l’isola di Numenor, evocata ma mai, ovviamente, raccontata nei film, o anche per raccontare qualcosa di già noto, come Elrond o Galadriel o la stessa terra di Mordor, ma con un occhio diverso. Com’era il mondo, com’erano i personaggi, tremila anni prima rispetto alle storie che abbiamo già visto? Da qui la necessità di introdurre personaggi nuovi e vecchi, ambienti nuovi e vecchi e anche intere popolazioni, come i Pelopiedi, antenati degli Hobbit, simili eppure diversi da ciò a cui siamo abituati. Certo, diventa complesso iniziare a questo mondo tre tipologie diverse di spettatori: i fan esperti, gli spettatori con una fruizione limitata del corpus tolkieniano (magari alle sole serie cinematografiche di Peter Jackson) e i neofiti. Ma, dopo questa prima stagione, che appare effettivamente come una lunghissima introduzione, gli showrunner si sbilanciano: affonderanno le zanne negli eventi canonici, nella prossima.
Certo, in questa prima stagione c’è molto che esula dal canone, e McKay e Payne sono pronti a difendere le loro scelte. Il mondo della Terra di Mezzo è stato esplorato da Tolkien solo in parte, e c’è moltissimo ancora da esplorare: in particolare, gli showrunner ammettono di essere affascinati dalla terra di Rhûn, la terra abitata dagli Esterling, che nei libri è accennata e non descritta e che rappresenta, per loro, uno dei maggiori buchi neri, a loro parere, nella trama del Signore degli Anelli. È per rispondere al desiderio di riempire questi buchi, per offrire una visione del mondo più ampia, che gli showrunner hanno deciso di utilizzare elementi tratti dal mondo di Tolkien, sentieri in realtà poco battuti dal professore di Oxford, per poterli adattare e rendere compatibile anche con quello che Tolkien non ha scritto, ma che avrebbe potuto scrivere.
In questo senso si inserisce la linea narrativa di quelli che sono chiamati i tre mistici, le tre misteriose figure, apparentemente femminili, che inseguono l’altrettanto misterioso uomo meteorite e che finiscono per mettere in campo una battaglia magica. Ora, in Tolkien la magia esiste, ma è poco raccontata, come sono poco raccontati gli scontri tra personaggi che usano la magia: ed ecco che quindi l’ottavo episodio prova a immaginare come questo scontro potrebbe essere condotto in un mondo tolkieniano. I tre mistici, inoltre, devono inserirsi nella folta trama di riferimenti ai classici con cui Tolkien intesse la Terra di Mezzo, ed ecco che l’ispirazione, quindi, viene dalle tre streghe di Macbeth, ma con un costum design originale, realizzato dalla costumista Kate Hawley, che dà vita e dettagli a ciò che, nei vari libri, è accennato o raccontato ma non descritto.
Eppure, e questo tema torna con forza nell’intervista, per gli showrunner è fondamentale che tutto ciò che hanno portato sullo schermo inviti gli spettatori a tornare a contatto con i libri. Nonostante si possano notare vari ammiccamenti alla versione cinematografica di Peter Jackson, McKay e Payne insistono sulla loro dipendenza da una rete molto più ampia, cioè l’intero corpus degli adattamenti, in qualsiasi medium, in ogni tempo, dell’opera di Tolkien: non solo Jackson, dunque, ma anche John Howe, Ted Nasmith, fino alla versione animata de Lo Hobbit. Ogni precedente visione dell’opera Tolkieniana crea un immaginario condiviso, in cui gli sceneggiatori dichiarano di volersi inserire, mostrando rispetto per ogni opera precedente la loro, in un continuum con cui desiderano sentire la connessione.
Una dimostrazione di questa loro volontà è data dalla canzone accompagna gli ultimi momenti dell’ottavo episodio: si tratta della Poesia dell'Anello, nota a tutti i fan, che fino a questo momento aveva brillato per la sua assenza e che viene presentata nel cliffhanger (o forse come cliffhanger) che chiude questo primo atto. Musicata da Bear McCreary, la poesia rientra nella tradizione tolkieniana delle canzoni, già ampiamente presenti nelle opere del professore di Oxford, ma anche nella versione animata dello Hobbit e nei film di Peter Jackson. Certo, la canzone in sé rappresenta un cliffhanger, perché ci avvisa di quello che sarà lo sviluppo delle stagioni successive: sappiamo che l’opera che il fabbro Celebrimbor ha inseguito in questi otto episodi, la realizzazione di qualcosa che salvi il popolo elfico e gli permetta di rimanere da questo lato dell’oceano, subirà in qualche modo una corruzione, che ci saranno molti anelli da forgiare in Eregion, e che ci dobbiamo aspettare non solo tre anelli per gli Elfi, ma anche sette per i Nani e nove per gli Uomini e, soprattutto, uno per quel Sauron che abbiamo finalmente conosciuto. La musica che accompagna la canzone chiude il primo ciclo narrativo, fondendo temi che in realtà abbiamo incontrato negli episodi precedenti, proprio a darci la chiave di sintesi della stagione: la forgiatura degli anelli, che dà il titolo alla serie.
Ma anche in questa tensione alla molteplicità risiede una delle anime della produzione targata Amazon. Non una singola storia lineare, ricordano gli sceneggiatori, come potrebbe essere accettabile per un film. La serie presenta diverse sottotrame intrecciate tra di loro, come richiesto dal particolare format della serie tv, che necessita di diversi personaggi e di diversi fili narrativi. E d’altra parte, cosa meglio di una serie tv, con la sua inevitabile tensione al molteplice (pur in un’ottica unitaria), per rappresentare i tanti mondi diversi che affollano la Terra di Mezzo della Seconda Era, da Numenor a una Mordor in formazione, da Eregion a Khazad-dûm.
E d’altra parte, come ricordano McKay e Payne, lo scopo di Tolkien è la creazione di una mitologia, (lo sappiamo, una mitologia per la nuova Inghilterra), non chiusa (perché mai un mito è chiuso, ma è sempre in movimento e modifica sempre se stesso per adattarsi ai nuovi contesti culturali), aperta a nuove menti, e a nuove mani, per continuare la creazione della Terra di Mezzo e per esplorare le sue storie. Una continuazione, ricordano gli showrunner, avvenuta sotto l’egida della famiglia Tolkien, della Tolkien Estate e di esperti tolkieniani, per rimanere, nei confronti dell’opera originale, rispettosi e reverenziali. Ed è alla riscoperta dei libri, all’invito a riaprirli e a rileggerli, a rituffarci nel mondo creato di Tolkien, o a entrarci per la prima volta, che la serie mira, almeno nelle intenzioni degli autori.
1 commenti
Aggiungi un commentoPer fortuna i libri sono molto ma molto diversi da questa pessima serie. Serie che soffre di una scrittura penosa, personaggi piatti e caratterizzati malissimo, al limite della macchietta, eventi che succedono solo ed esclusivamente perchè devono accadere, sequenze totalmente illogiche quando non demenziali, dialoghi che non oserebbero presentare nemmeno alle recite dei bambini dell'asilo... Si salva solo la fotografia e la musica, per il resto una serie che di Tolkien ha solo qualche nome buttato qua e la e nient'altro. NON E' una serie tolkeniana, ed anche come fantasy generico siamo su livelli di sceneggiatura infimi.
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