- The Mandalorian e la trilogia sequel: due approcci a confronto
- The Grogu
- Una mitologia allo specchio
Non credo che qui servano molti tipi come noi
The Mandalorian, Capitolo 22
Arrivati alla fine della terza stagione, credo saranno in pochi a negare che, tra tutte le opere derivate dalla trilogia originale di Star Wars, la serie The Mandalorian sia quella meglio riuscita – e probabilmente anche quella di maggior successo.
The Mandalorian e la trilogia sequel: due approcci a confronto
Questo senza nulla togliere alle qualità e ai meriti di opere come Rogue One e Andor, che però fanno parte di un filone drasticamente diverso, complesso e “impegnato”, per certi aspetti contrapposto allo spirito originale della creazione di George Lucas. Una differenza resa palese dalla quasi totale irrilevanza, in queste storie, di tutto ciò che ha a che fare con la Forza, che invece è un elemento centrale nell'altra linea narrativa.
È in questo filone principale, schiettamente avventuroso, sostanzialmente privo di implicazioni e complicazioni ideologiche e perciò più fedele allo spirito dei primi film di Star Wars, che si inserisce The Mandalorian.
Una fedeltà intenzionale, che emerge chiaramente anche dal bellissimo documentario sul making of della prima stagione. Lo spiega Dave Filoni nell’episodio intitolato proprio Legacy: [George Lucas] ha creato questo universo […] e noi dobbiamo semplicemente attingervi per restare fedeli alla sua creazione e fare ciò che George ha sempre fatto, ossia trovare costantemente nuovi modi per raccontare queste storie.
Un processo creativo che non è necessariamente limitato, e che inoltre è perfettamente coerente con quello alla base della creazione di Lucas. Anche Star Wars infatti ha attinto a piene mani a un universo preesistente, quello variegato e ampiamente riconoscibile su cui si era formato l’immaginario del suo creatore.
Il problema, come ha osservato efficacemente Federico Greco nel suo Star Wars La poetica di George Lucas, è semmai che la mitologia da cui ha attinto [Lucas] era il western, il romanzo cavalleresco, i serial di fantascienza degli anni trenta, la fantascienza popolare, i film di Kurosawa e così via. Mentre la mitologia su cui si è basato J. J. Abrams era… Star Wars. E questo, più di ogni altra cosa, spiega il problema narrativo di Il risveglio della forza.
Se confrontiamo la trilogia dei sequel con The Mandalorian ci accorgiamo però che il loro difetto non è tanto che si siano basati su quella mitologia (con la parziale eccezione del capitolo intermedio, che aveva imboccato un’altra strada poi bruscamente sconfessata nel terzo film).
Piuttosto, era aver posto l’accento esclusivamente sul “fare ciò che George ha sempre fatto”. L’arco narrativo di tutti i personaggi principali sostanzialmente ricalcava – decisamente troppo! – quelli della trilogia originale, con poche variazioni in definitiva piuttosto trascurabili.
Per questo i sequel non hanno suscitato grandi entusiasmi, e probabilmente hanno lasciato ben poco nell’immaginario del pubblico. Nel mio, quasi nulla.
Al contrario, il successo di The Mandalorian si spiega non solo e non tanto con la qualità tecnica eccezionale con cui è stato prodotto (comune anche ai film e alle altre serie), ma soprattutto con l’intelligenza con cui è stato perseguito l’altro lato della medaglia: quel “trovare nuovi modi per raccontare queste storie” di cui parla Filoni.
Invece di ricalcare il “viaggio” di Luke Skywalker, come aveva fatto J.J. Abrams, gli autori capitanati da Jon Favreau hanno scelto di mantenere temi e figure della trilogia originale, ma cambiandone drasticamente ruoli e funzioni. Hanno raccontato un viaggio diverso, all’interno dello stesso universo e dello stesso immaginario.
The Grogu
Per spiegare meglio che cosa intenda, assumerò che il protagonista della storia non sia Din Djarin ma Grogu. Mi sembra una prospettiva legittima se si considera l’intero arco narrativo delle tre stagioni, che a ben vedere raccontano di come il piccolo “Yodino”, superando prove e compiendo scelte, diventi il Mandaloriano che dà il titolo alla serie.
Proprio qui sta il primo e fondamentale ribaltamento rispetto al percorso di Luke Skywalker. La saga originale è la storia di uno sprovveduto contadino proveniente dalla periferia della galassia che apprende le vie della Forza da un mentore, Obi-Wan Kenobi, e poi da un super-mentore, Yoda, fino a diventare un cavaliere Jedi.
Grogu, che non a caso ha le sembianze del più potente dei Jedi, compie il percorso inverso: destinato dalla nascita a essere addestrato nell’uso della Forza, sceglie di abbandonare quella via per abbracciarne un’altra, quella del Mandalore. E che si tratti di una via opposta a quella dei Jedi è rappresentato iconograficamente dall’arma che la simboleggia: la Darksaber, contrapposta alle lightsaber dei Jedi.
Il suo mentore, che in questa prospettiva è Din Djarin, è un cacciatore di taglie, della stessa schiatta di quel famigerato Boba Fett che ne L’Impero colpisce ancora, da aiutante dell’antagonista Darth Vader, si portava via Han Solo ibernato nella grafite. Proprio il personaggio di Boba Fett, che ha meritato anche uno spin off tutto suo, compare qui come alleato, cambiando completamente di segno il valore del personaggio.
Anche creature come i Jawas, truffaldini mercanti di rottami nel deserto, e soprattutto (in The Book of Boba Fett) i selvaggi sabbipodi ottengono una completa riabilitazione.
L’antagonista rimane l’Impero (o quel che ne resta) nelle sue varie emanazioni. La principale (finora, in attesa del supervillain che dovrebbe essere nella prossima stagione il Grand’ammiraglio Thrawn) è rappresentata da Moff Gideon. È interessante notare che il suo rapporto con il protagonista Grogu è praticamente inverso rispetto a quello tra Darth Vader e Luke Skywalker.
Vader è il padre biologico di Luke, ma non l’ha mai cercato finché non è stato il figlio a raggiungerlo. Quando ciò accade, dopo varie vicissitudini, si sacrifica per salvarlo, ricostruisce il rapporto e si redime.
Gideon non ha figli (che si sappia), ma va alla ricerca di Grogu per crearsene una moltitudine sotto forma di cloni dotati della Forza: in un certo senso, il suo scopo è obbligare con la violenza il piccolo a diventare suo “figlio”. Per lui non c'è ovviamente alcuna redenzione.
Una mitologia allo specchio
Questo gioco di rimandi, ribaltamenti e slittamenti di significato compare a tutti i livelli nella serie, ed è una delle chiavi di lettura più ricche di spunti. Quello in cui si muovono Grogu e gli altri personaggi, insomma, è un vero e proprio “universo dello specchio” rispetto a quello di Star Wars.
Basti pensare alla figura di Bo-Katan Kryze (che non a caso funziona meglio rispetto al personaggio di Cara Dune, abbandonato dopo la seconda stagione): come Leia Organa è una “principessa” che ha perso il suo pianeta a causa della violenza imperiale, e condivide con il protagonista la capacità di percorrere la Via: in questo caso quella del Mandalore, per Leia quella della Forza. Ma allo stesso tempo sono molte di più le divergenze, in primis nella sua funzione all’interno dell’arco narrativo.
Lo stesso gioco è applicato a intere scene, come quella citata in esergo: Din Djarin e Bo-Katan entrano in una taverna per soli droidi e il mandaloriano cita testualmente la frase con cui l’oste nella cantina di Mos Eisley “accoglie” R2-D2 e C-3PO nel primo capitolo della saga. In questo caso però sono gli umani a non essere i benvenuti.
Chiaramente si tratta di un espediente che confina – e a volte sconfina – con il fan service. Ma un fan service intelligente, che oltre a divertire e strizzare l’occhio allo spettatore lo tiene agganciato alle vicende.
Attingere alla “mitologia” di Star Wars in modo originale per raccontare storie nuove: è questa la formula del successo di The Mandalorian. È la dimostrazione che in quella galassia lontana, lontana, un altro viaggio è davvero possibile.
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