Il celebre commediografo Conrad Earp è intento a comporre la sua nuova pièce teatrale che verrà messa in scena dal grande regista Schubert Green, un vero talento nel suo campo ma un uomo dalla vita privata travagliata. L’opera racconta le vicende di una cittadina nel bel mezzo del deserto dell’Arizona chiamata Asteroid City, in cui da tempo il governo degli Stati Uniti compie test nucleari. In questo luogo bizzarro viene anche assegnato un premio annuale per il ragazzo che ha realizzato la migliore invenzione scientifica e per tale ragione un gruppo di famiglie vi si riunisce con i geniali figli al seguito. A causa di un’incursione aliena però il governo decide di mettere la città in quarantena impedendo a chiunque di uscire, compreso il fotografo di guerra da poco vedovo e i suoi quattro figli, una star di Hollywood impegnata a imparare le battute per il suo nuovo film drammatico, una classe delle elementari e dei cowboy che hanno perso l’autobus.
Girano da un po’ di tempo su Youtube dei trailer prodotti dalle intelligenze artificiali che mostrano come apparirebbe un certo titolo famoso se fosse stato realizzato da un regista particolarmente riconoscibile. Neanche a dirlo lo stile di Wes Anderson, con le sue geometrie, carrellate laterali, gli attori feticcio e i colori, è particolarmente gettonato, e in rete proliferano quelle che sarebbero potute essere le sue versioni di Guerre Stellari, Harry Potter, Il Signore degli Anelli. Un pattern di linguaggio quello che si è creato nella sua carriera il regista texano così riconoscibile da dare vita a un gusto formale che ha convinto spesso critica e pubblico, sapendo conciliare storie accattivanti con uno stile originalissimo.
Che Asteroid City sia un’operazione di testa è chiaro fin dalla sua premessa, con la divisione in bianco e nero tra scrittore e messa in scena, il passaggio al colore quando si assiste all’opera realizzata, che è poi ciò che lo spettatore sta guardando. Ma se da un lato il piacere estetico continua nella cinematografia di Anderson ad essere sublime, è il contenuto questa volta a mancare del tutto. Grand Budapest Hotel è stato il primo film in cui la scenografia ha avuto un ruolo pari a quello dei personaggi nel racconto, prendendo poi sempre più spazio nello sviluppo della storia vera e propria. Ma se ne L’isola dei cani la tecnica di animazione poteva ancora sopperire alla mancanza dell’intreccio, The French Dispatch mostrava già una deriva chiarissima che ha portato oggi ad Asteroid City. Ne è la dimostrazione anche la scarsa empatia suscitata da qualunque personaggio che non appare più come accadeva in passato, un freak circondato da bizzarrie deliziose e impossibile da non amare. Anche la storia d’amore appena accennata tra due dei giovani scienziati in erba, è raccontata in modo svogliato (a differenza del delicatissimo Moonrise Kingdom), come una tappa obbligata in una sceneggiatura fatta di tappe obbligate in una narrazione che si rifà a se stessa.
Se Asteroid City doveva essere un racconto nostalgico sugli anni ’50 e sulla corsa allo spazio, manca completamente il bersaglio. Sembrerebbe chiaro cosa stia oggi a cuore ad Anderson, così come però è evidente che la maniera una volta codificata può essere ripetuta all’infinito diventando identica all’originale, specie se questa manca di cose da dire.
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