Capitolo I, ove si parla di una perdita imprevista.
Tutto iniziò quando persi il corpo. Sì, lo so che sembra strano da dire. Insomma, un corpo non è certo un mazzo di chiavi o un cellulare che te lo dimentichi in un cassetto o finisce tra i cuscini del divano; eppure fu proprio quello che successe.
Stavo leggendo un libro, l’ultimo romanzo di Alastair Reynolds, quando mi venne voglia di farmi una bella tazza di tè. Fuori pioveva, il cielo era grigio come il cemento del palazzo di fronte e l’aria già iniziava a rinfrescare, nonostante non fossero ancora le cinque. Era settembre. Il caldo torrido dell’estate aveva rapidamente fatto spazio a lunghe giornate scure e umide, un po’ come quelle che si vedevano in quei vecchi film in bianco e nero che ogni tanto venivano riproposti dalla televisione. Che il clima fosse impazzito, ormai lo sapevano tutti ma, come diceva mio nonno Gilbert, non c’era nulla che non si potesse risolvere con una tazza fumante di Earl Grey.
Così, dopo aver chiuso il volume e averlo poggiato sul tavolinetto accanto alla poltrona, mi alzai, mi diressi verso la cucina e allungai la mano per prendere la scatola del tè. Era una di quelle scatole antiche, in latta, decorata con una serie di illustrazioni in stile Liberty, che mi aveva lasciato mia madre poco prima di morire. Credo fosse anche più antica, forse addirittura degli anni Venti; quelli del XX secolo, si intende. Probabilmente era passata da una generazione all’altra in famiglia, assieme al sacro mandato di non farsi mai il tè in bustine, un vero e proprio sacrilegio per l’antico casato degli Eldergrave.
Comunque, fatto sta che avevo allungato il braccio e… ebbene, non ci sono molti modi per poterlo dire: il braccio c’era più. Niente braccio, niente polso, niente mano e soprattutto niente orologio, un Omega Speedmaster del 1966 che valeva almeno 20.000 sterline. Non uno qualunque, un Professional, uno dei primi. Un regalo di mio padre a cui tenevo moltissimo. All’orologio, intendo. Mio padre era un bastardo, ma questa è un’altra storia.
Preso dal panico abbassai lo sguardo verso le mani che avevo, o almeno, pensavo di aver sollevato verso il viso, e niente: le mani, il petto, persino la pancia; quest’ultima un’immagine familiare che mi accompagnava ogni volta che la sera mi toglievo la cintura dei pantaloni e indossavo il pigiama. Più giù di quella era abituato a non veder nulla, ma non certo perché fosse sparito anche il resto del corpo, eppure era proprio così: niente pancia, niente gambe e niente piedi. Insomma, nulla di nulla.
Immagino che ora stiate pensando anche voi la prima cosa che mi è venuta in mente in quel frangente: “Santi Numi del Paradiso, sono morto!” Così mi voltai e tornai nello studio: la poltrona era lì, vuota, con accanto il tavolino e il libro che vi avevo poggiato solo un minuto prima. Guardai per terra. Mi girai, insomma, da qualche parte dovevo pure essere! Va bene morire, o meglio, non va bene affatto, ma che fossi lì a preoccuparmi dove fosse finito il mio corpo in fondo aveva il suo senso: i corpi non spariscono così. Non poteva neanche essere un caso di autocombustione, di quelli che ogni tanto leggi sul “Sun”. Qualcosa sarebbe pur rimasto. Invece nulla. La casa era completamente vuota.
Stordito feci un paio di passi in corridoio, verso il portone di ingresso, là dove avevo fatto mettere il vecchio specchio della nonna, quello tutto ossidato con la cornice in legno dorato che piaceva tanto alla mia seconda moglie, sia maledetta l’anima sua. A dir la verità, a quel pensiero, mi girai un’altra volta, preoccupato. Poco poco fosse anche lei lì, da qualche parte? Il fatto era che non sapevo bene come funzionasse con la morte. Dopotutto, quando capita, è sempre una prima esperienza, no? Si tende a diventare un po’ paranoici in queste situazioni, ma il pensiero di rincontrare Melissa Stuart Brown riusciva a rendermi ancora più nervoso, come se perdere un corpo non fosse già un motivo sufficiente.
Per fortuna ero solo. In genere sono gli esseri umani ad aver paura dei fantasmi, non un altro fantasma, ma voi non conoscete Melissa, se no ne avreste paura anche voi. Comunque, tornai allo specchio e niente: vuoto come l’anima del mio padrone di casa quando studiavo al college. Forse ero diventato un vampiro. Quelli non si riflettono negli specchi. Mi toccai i denti. Con cosa non so, ma ebbi la netta sensazione che fossero ancora tutti lì e non ce ne fosse alcuno aguzzo. In quel momento non mi posi proprio il problema del perché riuscissi a sentire il pavimento sotto i piedi o mi prudesse il naso, ma era solo da pochi minuti che avevo perso il corpo; quindi, ancora ragionavo come quando ce l’avevo. Dovete capire, non è il genere di situazioni che ti insegnano al catechismo. Certo, ti dicono che esiste un’altra vita dopo la morte, ti parlano dell’anima ma, insomma, più che altro te la immagini come una cosa vaporosa e semitrasparente, tipo l’aria calda sopra l’asfalto d’estate.
Dovevo fare assolutamente qualcosa. Qualunque cosa. Uscire! Ecco, dovevo uscire e chiedere aiuto. Non sapevo a chi ma non avrei certo risolto il problema fissando uno specchio vuoto. Mi girai verso il tavolino fine Settecento posto all’ingresso, dove poggiavo di solito le chiavi di casa e della macchina e… nulla: sparite anche quelle. Be’, almeno quelle ci stava che potessero sparire. Le chiavi lo fanno, saltuariamente. Magari non sia quelle di casa che della macchina contemporaneamente, ma in giornate come quella potevo aspettarmi di tutto. Cos’erano in fondo due mazzi di chiavi in confronto a un corpo?
Così provai ad afferrare la maniglia del portone d’ingresso, ma sentii solo come se qualcosa mi avesse sfiorato la pelle delle dita per poi passare attraverso la mano. Qualunque cosa mi fosse successa, non mi erano ancora chiare le regole del gioco. Io sono un tipo abbastanza concreto. Dato che sono un membro della Chiesa Evangelica Valdese, non ho problemi a credere ai miracoli, ma in genere si tratta di eventi straordinari, che non avvengono certo ogni giorno, per cui di solito mi rivolgo innanzi tutto alla Ragione e solo dopo, quando davvero non ci sono alternative, alla Fede. Dopo tutto ero un ricercatore di Storia Antica dell’Università di Londra.
I fatti però erano quelli: ero incorporeo, invisibile, non riuscivo a toccare gli oggetti ma allo stesso tempo potevo camminare e persino toccarmi i denti, o almeno, l’impressione era quella. Il mio appartamento era al quarto piano. Sarei dovuto precipitare o galleggiare, o magari entrambe le cose. Un po’ su, un po’ giù. Non aveva alcun senso. In effetti nulla aveva iniziato ad avere senso da quando avevo chiuso il romanzo che stavo leggendo e mi ero alzato dalla poltrona. O forse sì…? Stavo leggendo… Magari mi ero addormentato!? Capita.
Ma certo! Stavo sognando. Tirai un sospiro di sollievo. Questo spiegava tutto. Adesso dovevo solo svegliarmi e finalmente farmi quella benedetta tazza di tè.
Proprio in quel momento squillò il telefono. Mi voltai, mi avvicinai alla segreteria telefonica, provai a rispondere, a schiacciare qualche pulsante. Ovviamente non successe nulla.
— Charles? Sei in casa?
Santo protettore! Era Vera, Lady Vera Wilson Taylor. Doveva essere ancora per quella benedetta fondazione che si occupava dei pinguini dell’Antartide. Be’, se non altro avevo un ottimo motivo per non rispondere. La segreteria scattò: “Non sono in casa. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. Bip.” Non era molto originale come risposta automatica, ma non avevo mai capito come cambiarla. Dopotutto sono uno storico, non un ingegnere!
— Charles, è per domani sera. Devi assolutamente venire. Ci sarà anche il Presidente della “AAAP”, l’American Association for Antarctic Penguins, i nostri cugini d’oltreoceano. Charles? Ci sei? Richiamami appena puoi.
Bip
No, non era decisamente un sogno. Sogni così io non ne ho mai fatti. Al più un incubo, ma troppi dettagli e purtroppo troppo verosimile. Lì di onirico, non c’era neppure il brontolio del temporale che stava per arrivare, come puntualmente aveva predetto quella mattina il servizio meteorologico della BBC.
Tornai a sedere sulla poltrona. Per qualche motivo ci riuscii. La maniglia non la potevo neppure toccare ma sulla poltrona potevo sedermi. Evidentemente il mio sedere aveva più senso pratico delle mie mani.
Mi misi a pensare.
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