Nel 1940 il comandante Salvatore Todaro viene messo al comando di un sottomarino per una missione nell’oceano Atlantico, nonostante soffra di problemi alla schiena causati da un grave incidente in una missione precedente. La moglie Rina vorrebbe tenerlo a casa e sogna una vita più tranquilla, al sicuro e lontano dalla guerra, ma Todaro sente di non potersi fermare. È convinto di avere delle visioni del proprio futuro e che la sua ora non sia ancora arrivata, per questo decide di partire comunque poiché è un marinaio e non riesce a stare lontano dal mare. Durante la missione però, il sottomarino intercetta una nave belga, nazione in teoria neutrale, ma che attacca Todaro e il suo equipaggio. La battaglia viene vinta dagli italiani ma il comandante decide comunque di trarre in salvo i superstiti agganciando la loro scialuppa al sottomarino e condurli fino al porto neutrale di Santa Maria delle Azzorre. Per far ciò però non può immergersi cosa che significa rimanere visibili agli attacchi dei nemici.
Film d’apertura all’80esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Comandante di Edoardo De Angelis, scritto insieme a Sandro Veronesi, è senza dubbio una pellicola controversa per sua ambivalenza. Da una parte è un tentativo interessante dell’industria nostrana di creare un colossal storico di ampio respiro produttivo. Se per ovvi motivi il budget non può essere paragonato a quello di un film hollywoodiano, Comandante si distingue però dal prodotto medio per la potenza di mezzi, si vedano soprattutto le scene marine e di battaglia. Il senso di claustrofobia, l’atmosfera cupa e opprimente, l’idea di uomini intrappolati in un enorme pesce d’acciaio cieco, è ben resa, soprattutto nella scena in cui il sottomarino s’incastra in una fune a cui è stata ancorata una mina. De Angelis riesce imporre una buona suspence e si soffre per il futuro drammatico e incerto dell’equipaggio.
Dall’altra parte però Comandante è anche un film con una sceneggiatura così debole da essere nei migliori dei casi sciatta, nei peggiori pomposa e retorica. L’dea di machismo, testosterone, virilità intese in senso patriottico vorrebbero essere mitigate dal gesto eroico che prescinde la situazione in cui si trova il protagonista, comandante fascista nella seconda guerra mondiale. In ogni modo viene detto, anche direttamente dalla bocca di Todaro, che l’unica ideologia alla quale rispondere è quella del mare, ed è dunque la sua etica di marinaio a imporgli di salvare il nemico sconfitto al di là della politica che pure egli stesso sostiene in quanto militare. Una retorica zuccherosa e fasulla da “Italiani brava gente” che pretende di mettere in ombra il contesto storico, e punta persino a lanciare un messaggio diretto al presente.
Il leitmotiv patriottico percorre inesorabile tutto il film tirando in campo le differenze regionali; il cuoco è napoletano e suona il mandolino, c’è chi ha un cognome slavo, chi è un fervente cattolico, chi un laico, creando l’affresco di un’Italia regionale ricca di particolarismi che si unisce per la patria nel fervore nazionalista. E alla domanda del generale belga sul perché Todaro avesse salvato lui e il suo equipaggio, la risposta dell’uomo è: “Perché siamo italiani”, frase detta con il sorriso da Pierfrancesco Favino che, proprio al Festival quest’anno, ha polemizzato sul fatto che film americani con protagonisti italiani non abbiano attori del Belpaese.
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