Se dovessi usare un aggettivo per definire Playing God è "materiale". Il materiale che viene usato per creare dal nulla il protagonista. Il modo molto materiale dello scultore nel manipolare la sua creatura, con movimenti decisi ma bruschi e nervosi. La materialità degli effetti sonori, così ben inseriti nel contesto da far credere allo spettatore di essere lì. E la materialità della luce, che plasma le forme, guidando lo sguardo dove il regista Matteo Burani vuole che ci si concentri. Non aggiungo altro sulla trama perché qualsiasi ulteriore dettaglio rovinerebbe l'atmosfera che va scoperta guardandolo. Un'intuizione può venire dal titolo, che in inglese rende decisamente bene perché to play significa sia giocare sia riprodurre. Lo scultore quindi, probabilmente, nell'atto di creare, prova a imitare dio.

Dallo storyboard di Playing God.
Dallo storyboard di Playing God.

L'efficacia della messa in scena si deve senz'altro anche alla scrittura, operata da Burani stesso insieme a Gianmarco Valentino, alla maestria di Arianna Gheller che in uno spazio compatto come il tavolo da lavoro di un piccolo atelier di uno scultore è riuscita a dare la sensazione di una piccola società in un piccolo mondo, accompagnata dalla colonna sonora di Pier Danio Forni, che senza di essa probabilmente il film non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo.

Playing God.
Playing God.

Non è facile entrare subito nello stato d'animo giusto di Playing God. Il consiglio è quello di informarsi il meno possibile prima di vederlo, per vivere la sensazione di straniamento del protagonista e scoprire insieme a lui il mondo che lo circonda. Poi, come gli occhi che si abituano a vedere in una stanza buia, ci si ambienta e si percepisce tutta l'emozione.

Il livello artistico sia di regia che di messa in scena fisica è molto alto e come ha dichiarato lo stesso regista per alcune scene hanno impiegato anche una camera a spalla in modo ingegnoso, ottenendo un ottimo risultato per un film realizzato con la tecnica paziente dello stop motion.

Playing God.
Playing God.

Il tono del film è macabro, ma il design dei personaggi non è molto lontano dal gusto di un Tim Burton, la cui influenza dell'estetica del regista è stata dichiarata dalla stessa animatrice nella nostra intervista, sebbene il tono non abbia anche il retrogusto comico tipico del regista, perché i messaggi che vuol veicolare sono ben altri.

Nella sua brevità riesce a far riflettere sull'importanza che noi e la società diamo alle cose, al bisogno di amore e accettazione. Tuttavia si può prestare a tante interpretazioni diverse, in base alla sensibilità di ciascuno.