New York anni '70, il giovane Donald Trump, figlio di un imprenditore edile, vuole tirare fuori la propria azienda da guai che lo coinvolgono con il governo federale. Si avvale dell’aiuto di Roy Cohn, un avvocato senza scrupoli amico di Nixon che vede nel giovane tutto il potenziale di ciò che sarà l’America di lì a pochi anni: fascino, intraprendenza e nessuno scrupolo. Se all’inizio Donald vuole soltanto salvare gli affari di famiglia, sposa poi in toto la filosofia di Cohn diventando un imprenditore disposto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi. Dopo aver sposato la super modella Ivana di cui all’inizio sembra innamoratissimo, perde interesse per lei così come rimane indifferente alla sofferenza del fratello maggiore che vive una brutta depressione. Siamo ora in pieni anni ’80 e l’AIDS miete le sue vittime, e quando anche Cohn si ammala Donald non è turbato nemmeno dall’imminente morte del suo mentore.

Presentato al Festival di Cannes 77, The Apprentice del regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi, esplora l'evoluzione del giovane imprenditore Trump e contemporaneamente della società americana, della sua progressiva trasformazione e delle conseguenze a cui il capitalismo conduce. Donald Trump è chiamato ad essere non solo un uomo che cerca di avere successo, ma un simbolo di una società che premia la spietatezza e la manipolazione. Il suo percorso diventa metafora del declino degli ideali americani, segnando l'inizio della fine di un'era in cui tutto sembra essere in vendita, compreso il sogno americano.

Tre sono gli elementi che Abbasi mette in scena in questa storia. Prima di tutto c’è Manhattan, molto lontana dal quartiere che oggi è diventato, simbolo di ricchezza, multiculturalità e benessere, ma che allora era conosciuto per il degrado e la pericolosità. C’è poi Trump, ragazzo promettente e di bell’aspetto ancora un po’ ingenuo ma presentato con quella fame di successo in grado di affascinare uno come Roy Cohn, capace di qualsiasi bassezza pur di vincere. Bisogna dare atto a Sebastian Stan, bravissimo nel catturare i tic del vero Trump, e del altrettanto straordinario Jeremy Strong, di dare tutta la credibilità a un film che altrimenti si ridurrebbe ad essere solo una pellicola a tesi. The Apprentice si limita a ridurre la filosofia di Tramp a degli sproloqui di un qualsiasi Fabrizio Corona, non sforzandosi mai di dare una tridimensionalità a un personaggio con il quale è praticamente impossibile empatizzare. Superficiale è anche il suo rapporto con Cohn, avocato omosessuale forse affascinato dal giovane, anche se nel film non si capisce mai bene perché tra i due nasca un’amicizia così profonda.

È fin troppo evidente l’intento che sta dietro a The Apprentice, cioè quello di dar ragione a tutti coloro che non simpatizzano per Tramp, mettendo in luce solo caratteristiche già note ma non andando mai oltre la superficie. Gli unici momenti in cui il film si spinge un po’ più in là non è per capire le ragioni per le quali milioni di elettori possano sposare la visione dell’America di cui l’ex presidente si fa portavoce, ma per mostrare uno stupro di dubbio gusto. Chi non si rispecchia in una visione trumpiana del mondo non scoprirà nulla di nuovo, chi invece segue la sua filosofia se mai guarderà The Apprentice non cambierà di certo magicamente idea.