Scoperta di se stessi, avventura e promozione del territorio, nel film Trifole – Le radici dimenticate diretto da Gabriele Fabbro.
Dalia (Ydalie Turk, anche co-sceneggiatrice), una giovane londinese figlia di una donna medico italiana (Margherita Buy) arriva nelle Langhe, per accertarsi dello stato di saluto del nonno Igor (Umberto Orsini), cercatore di tartufi.
Dalia arriva da una profonda crisi personale e l'impatto con il mondo rurale del nonno non sarà dei più semplici. Gradualmente però, anche con la mediazione empatica del cane da tartufo Birba, i due si avvicineranno. Quando il nonno si infortunerà e non potrà andare alla ricerca di un mitico tartufo da record, sulla cui posizione ha avuto una sorta di intuizione/profezia, Dalia si avventurerà per i boschi delle Langhe, affrontando pericoli naturali, la concorrenza spietata degli altri trifolatori, ma soprattutto se stessa e i suoi limiti, con l'aiuto di Birba.
Coming of age, avventura alla ricerca di se stessi, promozione di luoghi e paesaggi piemontesi, si mescolano in un film in cui Ydalie Turk si presta bene al ruolo della giovane in crisi, guidata dal mentore Umberto Orsini, faro e riferimento dell'intero film.
Dopo un primo atto che stenta a trovare il ritmo, segue una parte centrale – l'avventura di Dalia tra i boschi – più riuscita e avvincente, densa di momenti di tensione e colpi di scena che continuano fino a scivolare in una rocambolesca sequenza che però sembra troppo uno spot alla pro-loco di Alba.
Il finale melenso vuole essere consolatorio, ma il sottoscritto è rimasto con l'amaro in bocca, perché la trovo una consolazione ben magra e ingiusta.
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