Delicato, poetico e raffinato il film di Payal Kapadia, che mette in scena tanti temi, senza cadere nella superficialità. Lo sguardo della cineasta indiana riesce a raccontare la storia di tre donne, accomunate dalla professione di infermiera nel reparto di ginecologia di un ospedale di Mumbai.

Nonostante la descrizione di alcune situazioni al limite dell’igiene -possiamo immaginare quali possano essere i problemi in un paese povero, in cui le caste e l’immobilismo sociale mantengono le forbici sempre ben aperte-, nonostante questi atti di denuncia, l’autrice non si ferma a una rabbiosa e condivisibile sottolineatura, ma utilizza tali atti come trampolini per scandagliare i diversi approcci delle protagoniste: Prabha e Anu, a cui si aggiunge anche Parvaty, l’anziana infermiera sfrattata dopo 22 anni dalla sua casa per beghe burocratiche.

All We Imagine as Light - Amore a Mumbai
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Scopriamo pian piano che la sofferenza di Prabha è causata da un rapporto inesistente con un marito partito per la Germania a seguito del matrimonio e sparito da qualsiasi contatto. La fedeltà a un’idea inesistente, a un legame puramente formale, preclude qualsiasi possibile felicità a Prabha. Emerge allora una domanda, che riguarda tutti: quanto la nostra sofferenza dipende dagli attaccamenti e dalle paure, o dalle formalità? Quanto è possibile trovare spazi e dimensioni di felicità pur in una condizione non ideale? E cosa è ideale se non ci impegniamo a costruire quella dimensione?

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L’approccio di Anu, l’infermiera più giovane, con cui Prabha condivide la casa, è diverso, non solo per età, ma anche per carattere. Anu sceglie di vivere gli spazi di libertà di un amore osteggiato dalle rispettive famiglie. È innamorata di Shiaz, un ragazzo musulmano. Impossibile l’unione fra indù e musulmani. Eppure l’amore esiste ed è talmente forte e dirompente, che riesce a sbaragliare ogni raziocinio. Forse questo dovrebbe essere l’atteggiamento più sano. Forse, nonostante possiamo giustificare questi atteggiamenti con la giovane età, avere il coraggio di vivere l’amore è un atto doveroso verso se stessi, nonostante le maldicenze, nonostante la taccia sociale.

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In questo racconto di amicizia, in cui Mumbai e le sue pioggie fanno da sfondo, ma a volte diventano personaggi dirompenti a cui le protagoniste devono cedere il passo, si aggiunge la presenza di Parvaty e dei suoi problemi di alloggio. Parvaty, l’anziana infermiera, sembra il punto di unione fra le varie alternative, quella che con comprensione e compassione, riesce ad attuare una reductio ad unum, riesce a creare un contatto con le due donne, invitandole in un finale di realismo magico a godere di ciò che la vita può offrire. E sembra che tutto il film in realtà tratti più l’amicizia imprescindibile, vitale, creativa fra donne, più che l’amore che ognuna vive. Interessante anche la scelta di affidare a temi musicali personalizzati l’azione delle singole protagoniste. Il giovane montatore e cantautore Topshe ha quindi sviluppato partiture diverse per caratterizzare i singoli personaggi.

La sensualità e la forza sessuale del film è elegante e avvolgente, le attrici hanno dato prova di grande bravura e la regia misurata ed elegante è l’unica possibile per un film ad alto pericolo di noia e retorica.