SYDNEY - I discendenti di un missionario ucciso e mangiato nelle isole Figi, nel Pacifico, più di 130 anni fa sono tornati sulla scena del crimine per aiutare a scongiurare una maledizione che perseguita quel lontano distretto.

Gli 11 discendenti australiani hanno raggiunto oggi il remoto villaggio di Nubutautau, negli altipiani centrali di Viti Levu, dove sono stati accolti da 600 indigeni per la cerimonia tradizionale di riconciliazione, alla presenza del primo ministro Laisenia Qarase e di membri del Gran Consiglio dei Capi.

In una mistura di antichi riti pagani e cerimonie cristiane, ai discendenti del missionario sono state offerte mucche, tappetini specialmente intessuti e 30 rari denti di balena.

Gli 11 australiani hanno legami familiari con il missionario metodista Thomas Baker, ritenuto il solo uomo bianco ucciso e mangiato nella regione conosciuta un tempo come «l'isola dei cannibali».

Secondo la tradizione orale, il reverendo Baker e sette figiani del suo gruppo caddero in un'imboscata e furono uccisi in quel distretto il 21 luglio 1867, dopo che il missionario aveva tolto un pettine dai capelli del capo locale - un grave insulto secondo i costumi locali.

Il corpo del missionario fu poi cucinato, tagliato a pezzi e distribuito ai capi della zona. Tutto ciò che rimase furono le suole delle scarpe, ora esposte in un museo nella capitale Suva.

Mesi fa gli abitanti del distretto, che si credono oggetto di una maledizione per le azioni dei loro antenati, hanno chiesto alla chiesa metodista di organizzare la cerimonia.

«Gli abitanti del villaggio si sono resi conto che ciò che è accaduto 136 anni fa, potrebbe essere la radice dei mali di cui soffrono ora», ha detto alla radio australiana ABC il coordinatore della cerimonia, reverendo Isireli Kacimaiwai.

«La povertà, le rivalità fra famiglie e tribù... Arrivano anche a piantare marijuana per guadagnarsi da vivere, il che è illegale nelle Figi», ha aggiunto.

Dennis Russell di 46 anni, un minatore di Brisbane pronipote del rev. Baker di cinque generazioni, che non era mai stato fuori d'Australia, si è detto emozionato per l'esperienza.

«Per noi è stata un'avventura. Ci intimoriva un po', perché entravamo in una realtà di cui non sappiamo molto», ma ora siamo felici di averli aiutati, era una cosa che di certo li faceva soffrire», ha dichiarato.