Le tre luci (Der müde Tod) – di Fritz Lang, 1921

Avvertenza

L’articolo che segue contiene riferimenti alla trama del film, ritenuti necessari alla trattazione. L’analisi è basata sulle copie europee della pellicola, il cui montaggio differisce da quello statunitense. Poiché il film è conosciuto con altri titoli (Destino in Italia, The weary death, Between two worlds, The three lights, Destiny, Beyond the wall nei paesi di lingua inglese), l’autore ha optato per quello della copia in suo possesso. Commenti, pareri e punti di vista sono da considerare assolutamente soggettivi.

Trama

Una figura misteriosa (facilmente identificabile fin dall’inizio con la morte) ha preso possesso, in un villaggio, di un palazzo circondato da un muro impenetrabile. Nella locanda del paese giunge una coppia di innamorati e, durante la serata, il giovane viene invitato dalla morte a seguirla. La ragazza insegue, disperata, i due, riesce a penetrare nel palazzo con un inesplicabile miracolo (nel muro di cinta non ci sono aperture) e si trova in un salone pieno di candele, alcune delle quali stanno per estinguersi, una delle sequenze più famose e citate nella storia del cinema. La morte stringe un patto con lei, concedendole la possibilità di cambiare il destino finale dei protagonisti, incarnati sempre dai due giovani amanti, di almeno una delle tre storie (ambientate in Arabia, in Cina e nel Rinascimento italiano) che la ragazza vivrà, ma…

Il film

“Poema tedesco in sei canti”, così recita la didascalia iniziale, con chiaro riferimento ai sei rulli – antefatto; tre storie in costume; ultimo tentativo dell’eroina; finale – che componevano originariamente il film; forse non l’opera più nota del regista austriaco Fritz Lang e di sua moglie Thea Von Harbou, ma probabilmente una delle pellicole più influenti del primo cinema Espressionista nonché fonte diretta di ispirazione, per dichiarazione esplicita dei due autori Luis Buñuel e Salvador Dalì, del cortometraggio Un Chien Andalou (1929), considerato dallo stesso Breton il manifesto cinematografico del Surrealismo.

Appare più blanda, anche se altrettanto conclamata dalla critica, l’influenza sul capolavoro di Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo (1957), perché diversissimo è il modo scelto da autori e attori nel personificare la morte, curiosamente con registri molto meno istrionici, considerando l’epoca e gli standard recitativi, nel film di Fritz Lang.

Fritz Lang
Fritz Lang

Le tre luci visse fin dall’inizio vicende alterne: accolto tiepidamente in patria, fu archiviato negli Stati Uniti come una rivisitazione “nobly soporific” del già leggendario Intolerance (o meglio Love’s struggle through the years’ Intolerance) di D.W. Griffith (1916), forse per la consimile struttura episodica, e le copie distribuite furono arbitrariamente tagliate e rimontate per ottenere una versione più breve e accettabile dal pubblico, ma confusa sul piano narrativo rispetto all’originale.

Del potenziale scenografico sembrò accorgersi il solo Douglas Fairbanks, pioniere del cinema fantastico avventuroso e fondatore – con la moglie Mary Pickford e Charlie Chaplin – della United Artists, che copiò alla lettera da Lang l’ambientazione per il fortunatissimo Il ladro di Baghdad (1924).

Fu soltanto dopo la distribuzione in Francia e soprattutto in Inghilterra che la sorte del film mutò, grazie a una critica più acuta che seppe far cambiare l’opinione generale rispetto a Le tre luci: proprio nel regno unito, specificamente per questo film, fu usato per la prima volta il temine esplicito “Fantasy Movie”.

Certo Lang è soltanto agli inizi della sua carriera e questo traspare dagli standard produttivi oculati se non “poveri”, ma il regista si dimostra già geniale nel suo saper sfruttare gli specchi, i movimenti di camera, i chiaroscuri, le sovrimpressioni e tutti i trucchi in uso nel cinema muto in generale ed espressionista in particolare.

Non mancano nemmeno errori clamorosi nella messa in scena, il più celebre dei quali è troppo eclatante per non apparire voluto: nel finale del primo episodio, che dovrebbe svolgersi, citando la sceneggiatura, “ In un qualsiasi momento dell’influenza araba sul medioevo europeo”, compare un’anacronistica pistola del XVIII secolo, con un’inquadratura troppo insistita per essere casuale come tanti altri blooper successivi. Gli altri due episodi “fantastici” sono meno conosciuti, laddove il segmento ambientato in una Cina leggendaria, favolistica e atemporale risente delle mode orientaleggianti dell’epoca, è trasognato, divertito ma non particolarmente coinvolgente, agganciato all’esotismo manierato che Lang mostrerà di gradire anche in altri momenti della sua carriera (ne è prova evidente Il Sepolcro Indiano).

In merito all’episodio rinascimentale, vale la pena dire che Orson Welles, chiamato da Henry King a interpretare Cesare Borgia nel quasi dimenticato Il Principe delle Volpi (1949), del quale si ricorda soprattutto la sua interpretazione compiaciuta e gigionesca, pretese una scenografia basata proprio sul lavoro di Lang; il bislacco drammone rinascimentale contiene anche un’incredibile omaggio al succitato Un Chien Andalou (molto edulcorato rispetto alla sequenza originale) forse inserito nel copione dallo stesso Welles.

Ciò che rende però ancora interessante Le tre luci è una rilettura dell’episodio finale e del finale stesso, fortemente voluto dalla sceneggiatrice più che dal regista e fonte del loro ennesimo contrasto nel corso di una collaborazione artistica e di un menage matrimoniale che si conclusero con un doppio divorzio, dovuto anche all’appoggio incondizionato della Von Harbou al regime nazista (cui il regista era inviso, benché a lungo si sia ventilato il contrario), e con l’emigrazione di Lang negli Stati Uniti.