Tornando all’assunto, dopo la conclusione tragica dei tre episodi “fantastici” la morte offre alla fanciulla un’altra possibilità nell’epoca contemporanea ai fatti narrati, epoca non specificata ma facilmente riconoscibile come a cavallo tra XVIII e XIX secolo, romantica e fantastica per eccellenza: la giovane però non ha il coraggio di offrire la vita di un bambino – che anzi salva – al posto di quella dell’amato, e i vecchi, i malati e i pazzi ospiti di uno squallido ospizio, malgrado le loro asserzioni e la loro condizione, rifiutano di donare una vita cui, per grama che sia, si mostrano pervicacemente attaccati.
L’ultima concessione della morte è, in apparenza, che i due possano rimanere uniti nell’aldilà e li invita a seguirla, dopo di che ha luogo una scena totalmente inattesa, un omaggio all’Omnia Vincit Amor che potrebbe rischiare di far scadere il film verso un lieto fine fin qui esorcizzato dal dipanarsi della trama: mentre le mani dei due amanti si uniscono la morte improvvisamente svanisce, lasciandoli soli in un prato. E’ la salvezza oppure, forzando la lettura, questo indica che i due innamorati hanno oltrepassato la soglia verso una felice eternità?
La banalità, o meglio l’inattesa ovvietà della scena è però riscattata da Bernhard Goetzke, la morte, che ha già surclassato nel corso del film la debordante diva Lil Dagover e lo spento Walter Janssen: sul volto scarno, ieratico, triste del personaggio, una maschera fin qui immutabile, appare un rapidissimo sorriso pieno di gioia e comprensione, che da solo giustifica il titolo originale, Der müde Tod ovvero La morte stanca, di questo capolavoro del cinema fantastico tutto da riscoprire.
Dedicato alla memoria di Angelo Ciufo
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