Un’altra particolarità della pellicola è costituita dalla prima apparizione, nel ruolo dell’ “anziano” cattivo, dell’allora appena ventiduenne attore di origine tedesca Henry Brandon (citato ancora nei titoli di testa con il suo vero nome, Henry Kleinbach), uno dei più noti, poliedrici, attivi e longevi attori hollywoodiani, il cui volto è conosciuto spesso più del nome.
Lo ricordiamo volentieri due volte come il capo indiano Comanche – un tedesco! – Scar e Quanah Parker, nei due capolavori di John Ford Sentieri selvaggi (The searchers, 1956) e Cavalcarono insieme (Two rode together, 1962), ma un’occhiata alla sua filmografia vi farà scoprire in quanti altri classici fantasy più o meno recenti sia apparso.
Malgrado le ottime premesse, una serie di incidenti ritardarono notevolmente le riprese di Il paese delle meraviglie: Stan si fratturò la gamba destra cadendo dalla casetta a forma di scarpa della vedova Peep (questo personaggio riuniva in sé la mamma della pastorella Boo Peep e “The little old lady who lived in a shoe”), Oliver la gamba sinistra, con più un principio di polmonite, cadendo nel laghetto durante l’esilarante scena della sua “esecuzione”; l’attore che interpretava il re di Toyland, costretto dalla parte a ridere continuamente (ma probabilmente non aveva bisogno che un copione lo prevedesse…) fu ricoverato in ospedale con la mascella bloccata e lo stesso produttore restò per parecchie settimane fuori gioco in seguito a un comprensibile travaso di bile.
Il film soffre quindi di tagli imposti dalla produzione e di un montaggio distratto e frettoloso ma la sua magia sembra ancora oggi intatta, con un notevole equilibrio tra i momenti di pura ilarità e quelli più romantici come la storia d’amore tra Boo Peep e Tom-Tom.
Per una volta non fu sfruttato l’espediente di coinvolgere Oliver in una trita situazione erotico-sentimentale con equivoci, limite spesso ripetitivo e grossolano in quasi tutti i film della celebre coppia: Stan non funesta né sabota i sogni d’amore dell’amico e se la vedova Peep vedrebbe di buon occhio, come la trama sembra suggerire, l’accasarsi con Ollie, l’amico sembra stavolta accettare il fatto con la certezza che, come in ogni favola che si rispetti, ci sarà sempre per lui un posto in casa magari come allegro e maldestro “zio” della numerosa prole.
La produzione, tra l’altro, non concesse la realizzazione del film a colori; un vero peccato in quanto, a posteriori, la versione colorata elettronicamente di questo film è per giudizio unanime il miglior esempio di questa tecnica (su altri capolavori “colorati”, fantasy o meno, mi sia concesso sorvolare sdegnosamente) e perché i due comici espressero sempre il rammarico di non aver visto il loro capolavoro completo come lo avrebbero desiderato.
E’ triste considerare che Laurel e Hardy girarono a colori soltanto il loro ultimo lavoro, Atollo K, una squallida e (pare) truffaldina coproduzione italo-francese in cui appaiono soltanto i pallidi, vecchi, commoventi fantasmi di due padri della comicità cinematografica, capaci di di farci ridere e sognare.
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