Il vero protagonista del film resta comunque il rhedosauro verso il quale, nonostante la sua ferocia, non si possono non nutrire sentimenti di solidarietà e comprensione perché nei dialoghi, almeno prima della scena finale sulla spiaggia di Coney Island (non quella vera, in quanto per ragioni di ordine pubblico la spiaggia di New york venne ricostruita… a San Francisco), gli scienziati si dilungano nello spiegare la solitudine e i sentimenti di rabbia e frustrazione della creatura, proprio come nel breve racconto “derivativo” di Ray Bradbury, in realtà poco più di uno sketch malinconico e commovente.
Malgrado il dinosauro, ucciso dall’infallibile Lee Van Cleef, non riuscisse a trovare la compagna che cercava, riuscì comunque a lasciare un degnissimo erede, in quanto il giapponese Godzilla, creato nello stesso anno, appare qualcosa in più di una semplice ispirazione, sebbene l’animazione dietro il celebre sputafuoco nipponico sia molto più naif e raffazzonata di quella di Harryhausen: Godzilla, o meglio Gojira, “balenottero”, come suona in originale, altro non era che il soprannome della comparsa, un paffuto ex lottatore di Sumo, che per primo si calò negli scomodissimi panni del mostro.
Anche il più recente film statunitense appare, più che un remake della pellicola di Ishiro Honda, un affettuoso omaggio nell’ambientazione, nel prologo quasi identico e anche nella suspence di cui la versione americana, anche se poco riuscita, non è del tutto priva, a quella di Harryhausen.
Il risveglio del dinosauro è probabilmente la prima opera in cui sia possibile ammirare il suo talento, la sua cura maniacale dei particolari, il suo accurato studio dell’anatomia animale; con il massimo rispetto per Jurassic Park e in generale per tutto il geniale franchise di Michael Crichton e Steven Spielberg, né le loro creature né tutte quelle che le hanno seguite sull’onda della moda riusciranno a suscitare in me le stesse emozioni provocate dai tanti sauri (e non soltanto da quelli) di Ray Harryhausen.
Forse è colpa dell’età, o del tanto, troppo cinema visto finora, o forse soltanto un immenso rispetto nei confronti di questo geniale, inarrivabile artigiano il cui lavoro nobilitava sceneggiature quasi sempre risibili e mediocri, raggiungendo vette di arte che perfino il critico Tullio Kezich, spesso severo nei confronti del cinema fantastico, non ha mai esitato a definire Poesia.
A Ray Harryhausen, ovunque nel mondo, vengono dedicate mostre e retrospettive e non si contano i siti dedicati a lui e al suo superbo universo creativo; sarebbe bello, come usava una volta, che anche la televisione gli dedicasse una retrospettiva antologica completa, non limitandosi a riproporre in continuazione soltanto Scontro di Titani, il suo sia pure splendido canto del cigno.
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