Un giovane laureando in psicologia vive accompagnato dall’angoscia dei frequenti vuoti di memoria che lo hanno colpito spesso in passato. Fin da bambino, dietro consiglio medico, redige in chiave terapeutica un diario giornaliero che con il passare del tempo si è trasformato in un’ordinata serie di volumi. Proprio la lettura di questi scritti innesca un soprannaturale processo di viaggio temporale che gli permetterà di modificare gli eventi più traumatici della sua giovinezza. Purtroppo, proprio come nella teoria del caos citata nel titolo, ogni minima azione può dar luogo a gigantesche catene di reazioni e presto il ragazzo si accorgerà dei terribili prezzi da pagare per i suoi transfert temporali...

Eric Bress e J. Mackye Gruber sembrano attratti dall’idea di un protagonista immateriale che condizioni la vita dei protagonisti attraverso una serie di accadimenti confusi e di difficile credibilità. Nella loro precedente sceneggiatura, Final Destination 2, questo ruolo “invisibile” era svolto nientemeno che dalla Morte sotto forma di tragici quanto inevitabili incidenti, mentre questa volta tocca al viaggio temporale con tanto di teoria del caos. Agiti da queste forze primordiali i protagonisti dei loro copioni subiscono passivamente il destino e vengono sviliti al ruolo di macchiette senz’anima.

L’idea alla base di The butterfly effect, seppur priva di originalità, avrebbe potuto portare a succosi sviluppi, tutti accuratamente scartati dal duo alla regia, esclusivamente preoccupato da una messa in scena prettamente televisiva. La sceneggiatura, oberata dal peso di una continua reiterazione del “back to the future” crolla sotto una serie inevitabile di cortocircuiti diegetici ai quali si aggiunge un sovraccarico di tematiche (frammenti di film carcerario, commedia romantica, camp-movie, kammerspiel freudiano, esaltazione della giovinezza...) che non giova certo alla narrazione.

Lo script non viene poi sorretto da nessuna delle componenti del film: la regia è priva di reali momenti di interesse e non riesce a innescare nessun momento di tensione mentre la fotografia spesso eccede nel sottolineare il sottotesto ricorrendo a colori marcati, specie nei momenti di felicità del personaggio, con toni pastello esasperati all’inverosimile. Si aggiunga una colonna sonora che sembra composta da fondi di magazzino e una scenografia che fa dello banalità la sua regola e sarà facile immaginare la qualità generale del film. Inutile rimarcare l’inadeguatezza di larga parte del cast.

Il primo aspetto negativo è l’estrema stereotipizzazione di persone, cose ed eventi: tutto viene urlato nel tono più univoco possibile, senza sfumatura alcuna in un processo di omologazione terribile a vedersi. Gli ambienti scolastici sono tutti uguali, le camere delle ragazze sono da manuale, gli alberi sono “Alberi” da libro di botanica, i ragazzi cattolici hanno tutti il golfino e la riga dei capelli da una parte... Insomma, quel che in The Truman Show era artificio e fonte di riflessione/risate in questo genere di film diventa la realtà, in un morboso gioco che lascia l’amaro in bocca.

Chiunque di voi sia interessato al tema trattato in questa pellicola (attraverso diverse angolature e sfumature) può pescare titoli che lo trattano in maniera assai più adeguata, da Memento a Ritorno al Futuro passando per Donnie Darko, mentre per chi cerca in uno spettacolo cinematografico un buon esercizio di recupero di situazioni e stilemi narrativi tipici dei serial televisivi la visione di The Butterfly Effect è raccomandata fuor di ogni dubbio.

In sostanza, il fantastico, nonostante quel che possono pensare i tifosi neozelandesi di nuova data, non abita solo in casa New Line e, visti i recenti sviluppi, sarà difficile che torni ad abitarci tanto presto.