Al riparo della copertura catramata, Nina si rannicchiò sotto la pelle di capra. Scivolò piano, fin quando quella rozza coltre non l’avvolse tutta, lasciandole scoperti soltanto gli occhi. Immobile, trattenendo il respiro, seguì attenta le evoluzioni del punto di luce. Sapeva di cosa si trattava: quella piccola stella che descriveva traiettorie schizofreniche sul bagliore notturno di Mediterranea era un occhio-caksuh della Sicurezza. Tempo addietro, aveva visto uno di quei dischi sfrecciare sopra le alture vicine, e il solo ricordo degli immensi rotori argentati le rievocava la sensazione di terrore già sperimentata. Così, ristette a osservarne le evoluzioni per lunghi momenti, prima di riuscire a riportare la respirazione a ritmi normali, rendendosi conto di quanto grande fosse la distanza che separava il caccia dalla sua montagna. Sgusciò dalla pelle di capra e, attenta a non provocare il più piccolo rumore, si alzò in piedi, controllò la lampo della tuta idrorepellente e uscì dal ricovero con passo felpato.L’alba era ancora lontana, e gli abituali rifugiati del sito dormivano ignari. Non doveva farsi scoprire. Non da Nayumi Plinsky, suo padre, che se solo ne avesse intuito le intenzioni, fedele al sacro ruolo di capo comunità, l’avrebbe punita; non dai componenti delle altre famiglie compagne di sito, che avrebbero considerato la sua azione un vero e proprio attentato ai valori comunitari; non, soprattutto, da quel maiale di Gesio, che non perdeva occasione per pedinarla, con il chiaro intento d’insinuare le mani luride nelle sue intimità.

Superò la pensilina catramata del sito vicino, sotto la cui protezione trovavano conforto altre famiglie, aggirò il recinto dei muli e affrontò il primo dislivello irto di spuntoni di roccia. Quella scorciatoia le permise di raggiungere in fretta il sentiero che scendeva lungo le pendici dell’altura. Lì si fermò per qualche secondo e rimase in ascolto, perforando le ombre del monte con gli occhi dardeggianti, del colore dell’ebano. Dallo spiazzo dei siti nessun movimento disturbò il sommesso frusciare della notte e Nina, bandito ogni indugio, iniziò a scendere il monte, seguendo la traiettoria contorta del sentiero.

Si fermò ancora, duecento metri più in basso, nei pressi di una roccia che incombeva sopra una strettoia della mulattiera. L’aggirò e rimosse un coperchio di sterpi appoggiato alla base della roccia. Il fagotto che estrasse dalla buca nascosta conteneva i due oggetti che costituivano il suo tesoro segreto. Nina spiegò il panno che avvolgeva l’antico casco da motociclista e lo abbandonò nella buca; dall’interno del casco estrasse una vecchia pistola automatica e la ripose nel tascone che fasciava la coscia destra. Aveva trovato i due reperti fra le macerie di un casolare, durante una delle frequenti scorribande nei canaloni, e li aveva custoditi gelosamente per ogni futura evenienza. L’arma era scarica, e quindi inutilizzabile, ma la ragazza l’aveva conservata nella speranza di poter trovare, una volta o l’altra, munizioni adatte. Il casco, invece, si prestava a un utilizzo più pratico e immediato: era sufficientemente robusto da poter sostituire lo scudo energetico di un casco antipioggia, anche se, Nina se ne rendeva conto, con il tempo i rovesci acidi ne avrebbero intaccato irrimediabilmente il materiale vetroso. Per il progetto di fuga, però, si sarebbe rivelato alleato prezioso, e l’avrebbe difesa da qualche acquazzone improvviso.

Raccolse in una crocchia approssimativa i lunghi capelli corvini, infilò quell’elmo singolare e riprese la discesa del monte. Le luci lontane di altri due caksuh, giocando a nascondino dietro il rado fogliame foracchiato dalla pioggia, le attraversarono il visore opaco come saette sfocate. Il gracidare sguaiato di una cambiarana acquattata fra i cespugli la fece sobbalzare, e il fruscio di un altro selvatico della montagna, o forse di una serpe, la spinse ad accelerare il passo.

Raggiunse la gola che era ancora notte e se ne rallegrò. Aveva calcolato bene i tempi: poteva disporre di almeno un’altra ora buona, prima che il chiarore dell’alba tramutasse le montagne in una folla spettrale di giganti fumosi. Nina valutò che quel tempo le sarebbe stato sufficiente per attraversare la gola e allontanarsi abbastanza dall’altura dei siti; non aveva idea di quanto avrebbe dovuto ancora camminare per raggiungere le pendici del monte Aquila, ma riteneva comunque sensato assicurarsi un buon vantaggio, qualora la comunità, scoperta la fuga, avesse deciso di organizzare un inseguimento.