Il cervello sarà in movimento per creare l'immagine più adatta e un buon romanzo fornirà solo le informazioni necessarie a non far andare il lettore fuori dai binari della storia. In un film, il coniglio nella gabbia sarà esattamente come il regista ha deciso. Nessuno spazio all'immaginazione, lo spettatore subirà la scelta e la troverà bella o brutta, ma non la potrà cambiare. Per questo il film va inventato di nuovo: il regista dovrà scegliere il coniglio e la gabbia giusti, quelli in grado di suscitare nello spettatore le reazioni volute, indipendentemente dalle indicazioni del romanzo. Solo così non tradirà la storia.

Quello che Il Signore degli Anelli rappresenta, a distanza di cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione, è un fenomeno unico nella storia della letteratura. Non solo per i milioni di copie vendute in tutto il mondo, ma soprattutto per il movimento che si è creato tra la gente, dalla leggenda che è nata piano piano e che è cresciuta ovunque, dal senso di devozione che suscita ancora oggi. Volente o nolente, Tolkien è andato oltre, dando vita a qualcosa più di un romanzo, una vera mitologia, una storia parallela che si è sviluppata nell'immaginario di decine, forse centinaia di milioni di persone sparse nel pianeta. L'acqua, in questo caso, è stata una marea incontenibile e l'onda più alta continua ancora oggi la sua corsa inarrestabile. Quanto dev'essere potente uno stregone per rompere il contenitore creato da Tolkien per liberare Il Signore degli Anelli e ingabbiarlo di nuovo nel proprio? Peter Jackson è stato così potente? Forse qui sta la risposta a tutti gli interrogativi. Tutto ruota intorno alle insidie che un'operazione del genere comporta non solo per un regista, ma soprattutto per una casa di produzione. Ci vuole coraggio per imbarcarsi in un'avventura così, perché è fin troppo facile incagliarsi nell'insuccesso e quasi impossibile assurgere al consenso assoluto. I rischi sono molteplici, le responsabilità cento volte maggiori di quelle di qualsiasi altra trasposizione. Perché se la prima lezione dell'arte della trasposizione è "tradire il romanzo", in questo caso si tratta di tradire il romanzo per eccellenza, senza alcuna possibilità di nascondersi o passare inosservati. Quante persone avrebbero accettato questa forma di tradimento era la scommessa da vincere, indipendentemente dalla qualità del film che sarebbe venuto fuori.

Alla luce del lavoro che Peter Jackson ha fatto in questi anni è lecito chiedersi: era possibile fare di più o meglio di così? Forse la domanda giusta, tuttavia, è: era meglio non fare niente? Già in partenza c'erano da considerare gli effetti collaterali che l'operazione avrebbe portato con sé. Dall'uscita della Compagnia dell'Anello a oggi, le vendite del libro hanno fatto registrare cifre irraggiungibili per la maggior parte dei romanzi, assolutamente inimmaginabili per un'opera vecchia di mezzo secolo. Il primo effetto collaterale, positivo oltre ogni dire, è stato l'onda d'urto che il film ha provocato, rendendo un servizio al romanzo come nessun'altra manovra pubblicitaria avrebbe potuto fare. Solo per l'aspetto divulgativo, il lavoro di Peter Jackson è stato una benedizione per il mondo dell'editoria, rendendo appetibile il romanzo anche ai numerosi lettori che tremavano all'idea di affrontare milleduecento pagine di narrazione. Ma insieme agli effetti positivi, qualcosa di meno bello è avvenuto: l'opera di Jackson ha purtroppo ucciso la fantasia. Leggere le avventure di Aragorn senza vedere con gli occhi della mente la faccia di Viggo Mortensen sarà ormai quasi impossibile; né i grandi occhi da bambino del piccolo Hobbit Frodo saranno più diversi da quelli di Elijah Wood. Il coniglio e la sua gabbia ormai hanno una taglia, una forma e un colore.

Alla domanda se sia stato giusto fare il film, critica e pubblico hanno risposto di sì, e la forza della loro eco ha fatto il giro del mondo. Questo libro ha intenzione di scavare a fondo, analizzare il fenomeno nei dettagli e addentrarsi nell'affascinante alchimia dell'acqua.