Il Salotto del Doge, era il soprannome che la gente sussurrava da secoli. Un fazzoletto di terra stregato, abitato, di giorno, solo da piccoli animali, da cui l'ironico nome, che risaliva a...

Aggrottò la fronte. Che risaliva ai tempi di…

Oh, non era mai riuscito a tenerlo in mente, né aveva mai saputo quale fosse il Doge in questione, di certo uno mal visto. Forse quello che alla fine avevano accoppato. Comunque doveva essere una cosa di tanto tempo prima, quando, oltre ai Dogi, c'erano signori prepotenti, scuri che tagliavano teste e gente che non ne poteva più.

Tornò alla capanna e prese due sacchi di farina gialla e un carboncino. Disegnò sulla palizzata delle complicate figure geometriche e fece la stessa cosa con la farina, per terra, vicino all'entrata. Impiegò il resto del pomeriggio.

Quei simboli li infastidivano, chissà perché. Ed era sempre meglio evitare che si avvicinassero troppo al rifugio.

Vicino allo stagno, prima, aveva visto i resti di un piccolo animale, non era riuscito a capire di cosa si trattasse. Possibile che fossero già fuori? Erano un po' in anticipo. Ma non era il caso di correre rischi.

Si chiuse nella capanna e accese il fuoco, sul quale mise a bollire dell’acqua. Era il sei febbraio, o almeno questo confermava il rudimentale calendario che incideva costantemente su una corteccia. I giullari, in genere, si svegliavano dal letargo verso la metà di quel mese.

Dal Molin si sdraiò sul giaciglio di frumentone e paglia e controllò gli oggetti che alcuni abitanti dei villaggi, ogni tanto, gli portavano con delle barche. Oltre a cibo, vino e richieste commerciali, a volte qualcuno lasciava anche messaggi e comunicati vari. C’era la benedizione di don Giorgio della chiesa vicino ai monti. Con un’elegante calligrafia svolazzante, il prete gli aveva scritto che approvava il suo mestiere, che occorreva liberare quelle terre da certe cose malvagie, che avrebbe pregato per lui e così via. E così via. Va bene.

La bottega di Tomasin Ederle invece inviava “gallette dieci e bottiglie di vino due” con l’augurio di un buon lavoro. Ottimo. Sarebbe passato da Tomasin presto, portando un po’ del ricavato della caccia.

Molti gli scrivevano “Riveritissimo signor Dal Molin”, o “Dottore carissimo”, “Schiavo vostro”.

Un foglio diceva: “Imp. Reg. Delegazione Prov. – Avviso: si previene il Pubblico, che si rinnoverà in quest’anno, nel giorno di Venerdì 26. Febbraio in questo villaggio, la celebrazione dell’Antica FESTA DELL’ABBONDANZA, OSSIA LA FESTA DELLI GNOCCHI”.

Seguivano varie firme, un pezzo di cera marchiato e, sotto a tutto, la scritta “Dalla Tipografia Vicentini e Marzari”. Sul retro del foglio qualcuno aveva scritto: “Servono nuovi vestiti per questo giorno, sì che le dame sieno graziose”.

Dal Molin accartocciò il foglio con una mano e lo gettò nel fuoco.

Qualche minuto dopo, alzò gli occhi. Sollevò la maschera e inspirò forte: sentiva, nell'aria, un odore dolciastro. Riabbassò la maschera. Erano loro. Si erano già risvegliati e si stavano avvicinando.

Si chiese se si fosse dimenticato qualcosa, ma non gli sembrava proprio. Aveva preparato tutto. Aveva costruito un centinaio di trappole e rinforzato la palizzata con un’altra fila di paletti, piantati verticalmente e legati insieme. I dieci moschetti con baionetta erano carichi, provviste ce n’erano in abbondanza. Come una formica laboriosa, in un mese Nicolò Dal Molin aveva stivato carne secca, verdura, semi essiccati, radici e bacche. Aveva ricevuto diversi rifornimenti dagli abitanti dell’isola: vino, dolci, biscotti, polenta, frutta, uova, radici di cren.

Dal Molin aveva addirittura pensato di deviare un po' il corso dell'acqua e costruire un fossato attorno al rifugio. Un fossato, sì, come quello dei castelli, con tanto di ponte levatoio e tutto il resto. Da quello che aveva capito, i giullari non sapevano nuotare. Ma gli sarebbero occorsi mesi di lavoro, e adesso si era già in febbraio. Non c'era più tempo.

Utilizzò l’acciarino per illuminare le candele, sprangò porte e finestre e si mise a fissare il crocifisso appeso alla parete.

La palizzata fu colpita da un sasso, a cui ne seguì subito un altro.

Eccoli, pensò Dal Molin, balzando in piedi e prendendo uno dei moschetti. Era un vecchissimo Charleville 1777, roba francese che qualche soldato, nei tempi passati, aveva perduto sui monti sopra la città. I Charleville funzionavano ancora bene anche se, prima o poi, doveva decidersi a raccimolare soldi per fucili a luminello, ad anima rigata. Qualcosa di svizzero, magari, visto che dubitava di trovarne a buon mercato nel Lombardo-Veneto.

Uscì dalla capanna e si appostò nel punto della recinzione dove aveva intagliato alcuni fori.

Aprì la fiaschetta della polvere, gettò il tappo. Sollevò il cane dell’arma, aprì il bacinetto per far scivolare dentro la polvere e chiuse la martellina. Mosse rapidamente la bacchetta per spingere in fondo il colpo nella canna, chiedendosi con una punta di preoccupazione quanti ne sarebbero giunti quella notte. Passò una mano sulla maschera, accertandosi che fosse legata bene alla nuca, armò completamente il cane e sparò, colpendone uno in pieno volto. Abbassò gli occhi per ricaricare, poi controllò di nuovo attraverso il foro.