I giullari scavalcarono il corpo del loro compagno e ripartirono all'assalto del fortino. Erano armati di sassi, fionde e spade della lunghezza di un piede.

Dal Molin caricò in fretta e buona parte della polvere finì per terra. Sparò di nuovo e di nuovo fece centro.

Dio mi guardi, pensò. Son proprio tanti.

Tornò di corsa nella capanna e prese la pentola che aveva messo sul fuoco. Si scottò. La trasportò fuori, sbuffando e imprecando. La issò al di sopra della palizzata e scaraventò l'acqua bollente al di là, ustionandone alcuni che, avvicinatisi, stavano tentando di scavalcarla. Si chinò, raccolse il fucile e spiò dal foro: vide un laccio scattare e intrappolarne uno. A lui avrebbe pensato più tardi.

Fuori, l'orda dei giullari urlava e scalciava e lanciava sassi contro la palizzata, evitando però di avvicinarsi troppo alle figure geometriche che Dal Molin aveva disegnato sul lato orientale. Si udì lo scatto di parecchi lacci. Provenivano tutti dal punto dove aveva messo il fantoccio di paglia. L’aveva costruito solo il giorno prima, l’aveva dipinto di blu e l’aveva crocefisso su due assi di legno inchiodate insieme.

Ricaricò in fretta, spingendo la bacchetta nella bocca dell’arma. Sparò senza prendere la mira e sfondò la testa di un giullare, che cadde senza un gemito. All’interno del becco finto, Dal Molin emise un fioco “tz!” di disappunto.

Non alla testa, si ammonì.

Ora stavano attaccando dalla parte ovest. Dal Molin si alzò, corse verso quel lato della palizzata e infilò il fucile nel foro. Doveva ricordarsi di fare disegni su tutti i lati. Sparò. Raccolse gli altri fucili che teneva come riserva e nei minuti che seguirono fece esplodere altri quattro colpi, centrando un giullare e ferendone un altro al braccio, che scappò, barcollando, verso il bosco dell’isola, cadendo e rialzandosi.

Dal Molin prese la mira, poi decise di lasciarlo andare. Prese la borraccia, sollevò la maschera, si rovesciò acqua sul volto e sulla testa e bevve una lunghissima sorsata.

Vattene in fretta, pensò soddisfatto. Sinò t’accoppo.

Raccattò il moschetto e prese la mira verso un altro giullare. L'istante prima di sparare, il cappello a cilindro gli balzò via dal capo. Dal Molin si rannicchiò al suolo con un lamento. Si tastò la nuca: sangue. L'avevano colpito con un sasso… Quegli schifosi lo avevano colpito con un sasso!

Arricciò il naso in una smorfia furibonda. Vi ammazzo tutti quanti siete, pensò, e prese a ricaricare più in fretta, versando polvere, spingendo i colpi con la bacchetta.

Per un’ora, corse a destra e a sinistra all'interno del recinto, cambiando di continuo arma. Quando la situazione si fece critica, verso le nove, salì sul tetto della capanna e utilizzò le granate, ma lo fece a malincuore: c'era il rischio che i corpi finissero bruciati. Le bottiglie incendiarie erano solo per i casi disperati.

Riuscì a impiegare per altre due volte l'acqua bollente, poi, l'ultimo piccolo gridolino acuto si allontanò in direzione del bosco e si spense nel buio.

Dal Molin si sedette con un sospiro.

Sollevò la maschera e passò le mani sul viso.

Dio, quanti ne erano arrivati. Un paio di centinaia, se non di più. Ma quanti ce n'erano sull'isola?

Rientrò nella capanna, stanco e indolenzito. Bestemmiando, si tolse di dosso la maschera tenuta sollevata sulla fronte e il tabarro in più punti lacerato, e arrotolò la camicia dalle lunghe maniche sciolte in pizzi sporchi di nero.

Mise sul fuoco una tisana di erbe. Nell'attesa che cuocesse, medicò la ferita alla testa, risucchiando aria ogni volta che toccava la lacerazione. Fortuna che lo avevano preso solo di striscio.

Si preparò la pipa.

Si rialzò grugnendo: voleva controllare di nuovo gli oggetti che gli erano stati portati quella mattina dai villaggi della riva orientale. Guardò alcuni altri documenti e scovò un foglio che in precedenza gli era sfuggito. Si fermò, accese la pipa distogliendo gli occhi. Diede boccate e fece filtrare fuori il fumo, lentamente.

Aveva intuito giusto, era qualcosa d’importante: i prezzi al mercato di Piazza delle Erbe erano aumentati, ora un giullare valeva… Restò a fissare la cifra per qualche secondo, incredulo.

Uscì di corsa dalla capanna e aprì la porta della palizzata, ma la chiuse subito.

Stupido, si rimproverò, scuotendo il capo. Non far lo stupido.

Meglio rimandare il conteggio al mattino. Poteva essercene ancora qualcuno, là fuori, e non era la prima volta che loro gli facevano credere di essersene andati. A volte rimanevano appostati fuori, vicino agli alberi, capaci di rimanere in attesa e silenziosi per tutta la notte.

Dal Molin guardò la sua mano di tre dita. Non li avrebbe sottovalutati come l’inverno precedente. Nossignori, nemmeno per sogno.

Tornò dentro. Versò la tisana in una ciotola di terracotta e bevve una calda sorsata. Chiuse gli occhi e fece schioccare le labbra.

Ottima, si complimentò.

Tornò a guardare il foglio, con tanto di sigillo ufficiale con l’aquila a due teste, e tutto il resto.

Ora doveva solo passare la notte.