Il mattino successivo era molto freddo e le foglie erano imbiancate di brina. Con la maschera addosso, Dal Molin aprì cautamente la porta della palizzata e si guardò intorno pensando eh sì. Eh sì, la notte precedente aveva fatto un buon lavoro.
Il prato era disseminato di piccoli cadaveri. Raccolse i corpicini senza vita di ventiquattro giullari e li accatastò in un angolo della capanna.
Ventiquattro per trenta faceva… Bene, più tardi avrebbe fatto il calcolo. Si avvicinò alle trappole.
Un giullare, appeso a testa in giù, privo del suo copricapo con campanelli e con l'aria stremata, lo vide arrivare e si agitò nel tentativo di liberarsi. Doveva essersi dibattuto tutta la notte. La creatura agitò le minuscole braccia e digrignò i dentini limati a punta. Dal Molin si fermò e lo osservò, pensoso.
Perché erano così simili a bambini?
Sospirò. Bambini con la pelle blu, vestiti da giullari. Ecco cos'erano quei maledetti. Da dove venissero, nessuno lo sapeva, ma il dato di fatto era che da secoli vivevano e prolificavano solo lì, al Salotto del Doge, insieme a qualche animaletto selvatico e ai gabbiani. E che al mercato in città valevano molto di più, quella mattina.
A voler dar retta alla leggenda, erano stati trasportati sull'isola per ordine della Chiesa, che tanto tempo prima, oltre alle streghe, agli orchi, alle anguane e ai giganti, combatteva anche i folletti. Altri pensavano fossero i discendenti della città maledetta di Benaco, sprofondata nel lago mille e mille anni prima o qualcosa del genere.
Dal Molin non sapeva cosa pensare. Potevano anche essere caduti giù dal cielo, se era per quello. Il discorso era che avevano la faccia da bambini.
Coprì la testa dell’essere con un cappuccio, gli legò mani e piedi, lo tirò giù dalla trappola e lo portò dentro il fortino.
Fare l'ammazzagiullari era un affare. E non servivano licenze di alcun tipo. Occorrevano solo adattabilità, pazienza e un po’ di fortuna. Il resto doveva procurarselo lui, ma ci voleva poco, e in cambio di piccoli favori si poteva contare sull’aiuto dei villaggi del lago. Dal Molin aveva fatto molte stagioni, al Salotto del Doge: sette. Contava di proseguire per un altro paio d’anni, poi smettere e andare a vivere in città come un signore, svegliato al mattino tardi dai domestici, servito e riverito.
Il gridolino da pipistrello del giullare lo riportò alla realtà. Con una smorfia, Dal Molin rovistò in una cassetta di legno e brandì il manico d'avorio di un coltello con la lama seghettata. Tolse il cappuccio dalla testa del folletto. Gli afferrò con una mano la testa, spingendogliela all'indietro. Restò per un po’ a fissare la collanina della creatura, uno spago dove erano stati infilati sassolini colorati, denti di piccoli animali. Il folletto aveva anche anelli e amuleti cuciti sul vestito: la coda di uno scoiattolo, foglie.
L’essere lo fissò e parve spaventato.
Probabilmente, pensò Dal Molin, era così stupido da pensare che lui non fosse un uomo ma un mostro con il volto da rapace. – Cra! – gridò d’un tratto, avvicinandosi con la maschera al folletto, che si contorse.
Dal Molin ridacchiò. Poi gli tagliò la gola e il giullare spalancò occhi e bocca, incredulo. Fiotti di sangue nero affiorarono dallo squarcio.
Dal Molin fece una smorfia disgustata: più che nero, quel sangue era blu scuro. La notizia che circolava era che il colore della pelle fosse dovuto a disfunzioni del cuore, ma ancora nessun medico della terraferma lo aveva confermato.
Senza pensarci, rigirò il coltello nella carne del folletto e fece leva verso l'alto, facendo gorgogliare la creatura non ancora morta. Conosceva un tizio che comprava pelle blu a venti soldi il braccio. Ci faceva dei vestiti, da quel che ne sapeva. Rise a denti stretti. Eppure andava molto di moda la pelle blu, soprattutto a settentrione, oltre il confine.
Il folletto smise di agitarsi.
Quando il corpo fu spellato, Dal Molin gli staccò la testa. Le ossa erano molto fragili, ma bisognava centrare il punto giusto, altrimenti il prezzo si abbassava. I teschi venivano trasformati in vasi, oggetti d'ornamento, sputacchiere.
Era macabro, sì, e anche un po’ ingiusto, ma – Dal Molin si asciugò le mani sui calzoni corti al ginocchio – rendeva proprio bene.
Dopo che ebbe spellato e decapitato tutti gli altri, sollevò la maschera sulla fronte, addentò il tappo di sughero di una bottiglia, lo sputò sul pavimento e si concesse una lunga sorsata di grappa. Un messaggio nella cassa della bottiglia dichiarava: “Dono della Bottega Marc’Antonio Zuliani”.
Dal Molin si asciugò la bocca e ruttò.
Durante i quattro giorni successivi, nevicò molto. Il quinto giorno ricominciò invece a piovere forte. Con addosso la maschera, e una coperta sulla testa, Dal Molin spiò di nuovo dal foro.
Sollevò il fucile carico, facendo attenzione a tenersi riparato sotto la piccola tettoia di legno, e fece fuoco.
Si abbassò e imprecò. Lottando contro il mal di testa, tornò di corsa dentro la capanna.
10 commenti
Aggiungi un commentoMolto carino, complimenti. Ti posso "rimproverare" solo una cosa e cioè il nome del protagonista, perchè ogni volta che lo leggevo mi veniva in mente la polemica che c'è stata sulla base militare americana di Vicenza. Si chiamava Dal Molin anche lei, purtroppo!
Ciao a tutti, no, i puffi a dire il vero non c'entrano Oppure, mettiamola così: mi sono immaginato dei simil-puffi un po' bastardelli
Dal Molin: è una coincidenza, il racconto risale a prima dei fatti di Vicenza. Avevo semplicemente pescato fra i cognomi veneti più diffusi.
E per quanto riguarda il lieto fine... c'è o non c'è?
Ciao!
Non c'è
Sono sempre portato a tifare per il protagonista anche nel caso sia un pò bastardo (credo sia l'aggettivo più adatto).
Sono d'accordo con Bartimeus: il lieto fine non c'è, perchè anch'io sto sempre dalla parte del protagonista. Anche quando è il cattivo!
Lo immaginavo che il nome del protagonista lo avevi scelto prima dei fatti di Vicenza, purtroppo sono io che il racconto l'ho letto dopo quella polemica e che continuavo a ripetermi: "Dal Molin, ma dove l'ho già sentito?" Insomma mi sono rovinata un po' l'atmosfera della storia a forza di ripensare che cosa mi ricordava. Comunque è un bel nome, molto musicale.
Eh, lo so, Dal Molin era simpatico anche a me ma non aveva speranze!
Se mai un giorno dovessi farci un romanzo o una storia più lunga... il finale potrebbe essere diverso
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