Aveva sbagliato ad aprire un’altra bottiglia, la sera prima. Aveva davvero fatto un errore da principiante, lo riconosceva, ma tentò di mantenere la calma necessaria.

Prima regola: mai bere troppo al Salotto del Doge. Mai, nemmeno quando il mattino sembra così lontano. Nemmeno quando ti rendi conto che sei solo su un’isola di mostri, nemmeno quando pensi che al mondo estistono altri mestieri. Altrimenti, il giorno dopo sei lento, e i bambini maledetti se ne accorgono.

Afferrò la pentola e la trascinò fuori. Un po' di acqua bollente uscì dal contenitore, scottandolo.

Il cacciatore strinse i denti. Issò la pentola e gettò il liquido al di là della palizzata. Udì dei lamenti e sorrise. Raccolse il fucile di riserva. Sbuffò. Gli occorreva un altro braccio, per stare dietro a quegli schifosi. Ne erano arrivati tantissimi, stavolta. Si erano organizzati proprio bene. Continuò a sparare, saltellando qua e là per il recinto. Lo stavano attaccando da tutti e quattro i lati. Significa che i disegni sulla palizzata non funzionavano più. Perché?

I pelleblù indossavano i soliti vestitini verdi e i berretti con i campanelli sulle punte, ma il cacciatore aveva notato qualcosa di diverso, quella mattina. Un elemento estraneo. Uno di loro era differente dagli altri, ne era sicuro. Ma ancora non... era riuscito a vederlo bene.

Si accosciò e, da dietro la maschera, sbirciò di nuovo il campo di battaglia. Là fuori sembravano essersi dati appuntamento tutti i giullari del Salotto del Doge. Ognuno di loro valeva almeno un sacchetto di monete e... Dal Molin socchiuse gli occhi e mise a fuoco l'immagine.

Cosa fanno? pensò.

Sollevò entrambe le sopracciglia e rabbrividì: si erano fermati.

Fece qualche passo indietro, confuso. Perché non combattevano più? Perché se ne stavano lì impalati a guardare in direzione del bosco?

Guardò anche lui.

Da dietro gli alberi ne stavano sbucando centinaia, avanzavano disposti in file ordinate.

Alcuni di loro battevano su dei tamburi, altri innalzavano stendardi con strani simboli. Acuti, nell'aria, si librarono suoni di flauti. Ecco cosa stava succedendo: erano arrivati i rinforzi.

Il cacciatore fischiò. Fanno sul serio, riflettè, lottando per trovare la cosa divertente. In fin dei conti, era come assistere a una recita scolastica. Solo che quei “bambini”, quando ci si mettevano, mordevano.

Si grattò istintivamente la mano con le dita mancanti, ricordo dell'inverno precedente.

Uno dei folletti, in testa a tutti, stava osservando il fortino, facendosi schermo con le mani. Si voltò verso gli altri e gesticolò, dando ordini in una lingua che Dal Molin non comprese.

Dev'essere uno dei capi, intuì.

Era del tutto simile agli altri giullari, tranne che per un particolare: il berretto bianco.

Ridacchiò nervosamente, poi tornò subito serio. Altri cacciatori suoi amici avevano avuto a che fare con una creatura come quella che stava vedendo ora, ma lui, sulle prime, non ci aveva creduto. Il Folletto Dal Berretto Bianco l’aveva sempre considerato una leggenda, una barzelletta, ma ora aveva la prova: quei mostri erano suddivisi in classi gerarchiche.

Ma perché era intervenuto anche il capo della comunità, stavolta?

Dal Molin sparò un colpo e ridusse al silenzio uno dei giullari con il flauto, la cui ultima nota fu uno sbuffo sfiatato e melodioso.

Perché era intervenuto anche lui, maledizione?

Stupidi bambini blu. Se credevano di spaventarlo...

– Or sentitemi – gridò, creando una voce profonda all’interno della maschera – se credete di spaventarmi…

Ci fu un lampo di luce bianca, a cui fece seguito un boato e un tremendo scricchiolìo. Pioggia di sassi e legno. Dal Molin si buttò a terra, coprendosi la testa con le braccia. Appena il fumo si fu dissipato, si rialzò e si guardò intorno, incredulo.

Lo avevano bombardato?

Controllò subito se la palizzata fosse ancora intera: sì. Per fortuna l’aveva da poco rinforzata con un’altra fila di paletti. Ma con che cosa gli avevano sparato? Con una catapulta, come tre o quattro anni prima? Sbirciò dal foro.

Un folletto, lontano, stava guardando proprio nella sua direzione, sorridendo, e gli puntava contro l'indice ad angolo retto col pollice. Abbassò il pollice e le sue piccole labbra si mossero fino a formare la parola: “pam”.

Dal Molin emise un sospiro tremolante. – Maladetto nano – mormorò, togliendosi di dosso del terriccio dalle maniche. Raccolse il moschetto. Ora gli avrebbe fatto vedere.

Mentre caricava, spostò distrattamente lo sguardo alla sua destra e notò che un punto della palizzata si stava lentamente sciogliendo, colando filamenti come burro fuso.

Il cervello di Dal Molin registrò la gravità della situazione, ma tardò un po’ prima di dare l'allarme.

L’uomo sollevò il cane del moschetto e si preparò a mandare al creatore un altro giullare con il flauto. Sgranò gli occhi come per un ripensamento e tornò a guardare la palizzata.

– Dio – sussurrò.