«Navigavamo lungo lo stretto, piangendo. Da una parte era Scilla, dall'altra la divina Cariddi che stava inghiottendo, paurosamente, l'acqua salata del mare. E mentre la rigettava, ribolliva tutta mugghiando come un lebete su un gran fuoco: da entrambe le parti in cima agli scogli ricadeva la schiuma. E quando invece ingoiava l'acqua salata del mare, ribolliva tutta al di dentro e intorno la roccia risuonava orrendamente mentre di sotto appariva il fondo nero di sabbia. Un tremendo terrore colse i compagni. Tutti guardavano il mostro, temendo la morte. E intanto Scilla dalla concava nave rapì sei compagni, le braccia più forti, i migliori. Quando volsi di nuovo lo sguardo alla nave veloce, cercandoli, ne vidi, in alto, i piedi e le mani: sollevati per aria urlavano, gridando il mio nome, allora per l'ultima volta, col cuore straziato.

Bekim Fehmiu è Ulisse nello sceneggiato di Franco Rossi del 1968
Bekim Fehmiu è Ulisse nello sceneggiato di Franco Rossi del 1968

«Come quando su di uno scoglio a strapiombo un pescatore adesca con cibo i piccoli pesci gettando in mare un cannello di corno di bue attaccato alla lenza lunghissima, e, preso il pesce che guizza, lo getta lontano, così essi guizzavano in aria contro le rocce. E là, davanti al suo antro, Scilla li divorava urlanti, mentre tendevano le braccia verso di me, nella lotta mortale. Fu la cosa più triste ch'io vidi fra tutte quelle che sopportai solcando le vie del mare. Scampati agli scogli, a Scilla e alla tremenda Cariddi, rapidamente giungemmo all'isola bella del Sole.»

È interessante notare che Ulisse, ripensando a quante ne ha passate, considera l'episodio dello strazio dei compagni da parte di Scilla il più triste in assoluto. In effetti in tutte le pur terribili prove che ha affrontato in passato, Ulisse poteva bene o male contare su una speranza, su una possibilità. Almeno poteva combattere; contro il ciclope, contro le Sirene, contro gli incantesimi di Circe. Invece con Scilla e Cariddi deve per forza stare a guardare e non può fare niente. Sembra proprio che ci sia una metafora nell'Odissea, che dice che contro certe forze della natura non c'è niente da fare e bisogna rassegnarsi. D'altronde anche Circe avvisò all'inizio Ulisse, quando gli disse che Scilla non era un mostro mortale che poteva essere affrontato come gli altri.

Successivamente Ulisse avrà un incontro ravvicinato anche con Cariddi. Quando lui e i compagni giungono stremati all'isola del Sole, trovano delle vacche che pascolano liberamente. Sono le vacche sacre del dio Iperione (cioè il Sole). Il gruppo è sfinito, stanco e affamato, ma Circe ha già avvertito Ulisse di questa prova e gli ha assolutamente sconsigliato di toccare le vacche, pena l'ira degli dei. Manco a dirlo alla fine i guerrieri di Odisseo disubbidiscono ai suoi ordini e fanno un gran banchetto. Potrebbero anche dargli retta, qualche volta.

Il Sole si arrabbia parecchio, si rivolge agli altri dei e praticamente gli dà un ultimatum. O i compagni di Ulisse saranno puniti o lui smetterà di illuminare il cielo. Scenderà nell'Ade a splendere per i morti. Zeus prega il Sole di rimanere al suo posto e promette la giusta punizione per chi si è macchiato dell'affronto. Per questo motivo, quando gli eroi riprendono il viaggio, sono colti da una violenta tempesta. Infine Zeus stesso scaglia una folgore e la nave viene distrutta. Si avverano così le parole di Tiresia, che predisse a Ulisse la perdita di tutti i suoi compagni.

Ulisse rimane solo in mezzo al mare, si lega ai resti della chiglia e di un albero e viene trascinato dalle onde e dal vento. Sfortuna vuole (e magari anche gli dei contrari) che si ritrova trascinato nuovamente nello Stretto di Messina, dove l'attende Cariddi.

Nell'Odissea del 1997 Ulisse è interpretato da Armand Assante
Nell'Odissea del 1997 Ulisse è interpretato da Armand Assante

«Per tutta la notte vagai, e al sorgere del sole giunsi allo scoglio di Scilla e alla tremenda Cariddi. Essa stava ingoiando l'acqua salata del mare: io mi slanciai in alto verso l'altissimo fico e ad esso mi tenevo attaccato, simile a un pipistrello. Non riuscivo a puntare i piedi, non potevo salire: distavano le radici, alti erano i rami, i lunghi rami robusti che facevano ombra a Cariddi. Mi tenni saldo, finché rigettò di nuovo albero e chiglia: li attendevo, e mi giunsero, infine; nell'ora in cui un uomo che giudica le molte contese di chi cerca giustizia, lascia la piazza per andare a cena, a quell'ora dalle fauci di Cariddi comparvero i legni della mia nave.

«Lasciai andare i piedi e le mani e in acqua piombai accanto ai lunghissimi legni; e su di essi seduto, remavo con le mie braccia. Non permise il padre degli dei e degli uomini che mi vedesse Scilla: non avrei potuto sfuggire all'abisso di morte. Per nove giorni vagai, la decima notte gli dei mi gettarono sull'isola Ogigia, dove vive Calipso dai bei capelli, la dea che parla con voce umana. Lei mi accolse ed ebbe cura di me.»

Il resto, come si suol dire, è storia. Pardon, leggenda.

I brani dell'Odissea sono tratti dalla traduzione di Maria Grazia Ciani