Jeliza Rose è una bambina di nove anni che vive con i genitori tossicodipendenti. All’interno delle mura domestiche la piccola Jeliza diventa una sorta di infermierina servile che prepara con cura le siringhe al padre Noah (uno sfattissimo Jeff Bridges) ex rock-star sul lastrico, totalmente sconvolto dalla tossicodipendenza.
A seguito di un’overdose, la madre di Jeliza muore e il padre, che in un barlume di lucidità intravede un’inevitabile intervento dei servizi sociali, abbandona la casa e fugge con la piccola tornando ai luoghi della sua infanzia, in una decadente fattoria di campagna dispersa tra gialli campi di grano. La situazione degenera e Jeliza inizia un’evasione dalla realtà cercando rifugio in un mondo filtrato e distorto dalla sua mente. Lo farà fino a quando i due mondi entreranno inevitabilmente in collisione spalancando le porte della consapevolezza, attraversate le quali Jeliza si lascerà alle spalle il mondo dell’infanzia.
Tideland, tratto dal controverso libro di Mitch Cullin, è diventato per Terry Gilliam un progetto concreto quasi per caso, e senza nemmeno troppi preamboli. Girato in Canada durante le ‘pause di riflessione’ dell’avventura Weinsteniana dei Fratelli Grimm, la pellicola viene finanziata completamente dalla Capri Film (di Gabriella Martinelli) e dalla HaNaWay (di Jeremy Thomas). Una produzione a basso budget e totalmente indipendente, quasi un paradiso come ha definito l’esperienza lo stesso Gilliam, abituato, suo malgrado, a ben altre esperienze produttive.
"I media guadagnano molto pubblicizzando i bambini come delle vittime. Io credo che i bambini siano molto più forti di quanto gli adulti pensino. Sono fatti per rimbalzare quando cadono. Più si cresce e più si è spaventati dalla vita, il mondo ci si chiude addosso e si perde la possibilità di immaginare cose impossibili e fantastiche. Nelle prossime ore cercate di dimenticare tutto quello che sapete e cercate di essere di nuovo bambini”, questo il prologo dello stesso Gilliam all’ anteprima italiana tenutasi nella suggestiva cornice di Montone durante l’ Umbria Film Festival dello scorso 5 Luglio.
Tideland non parla di tossicodipendenza, di violenza e di degrado sociale con la pretesa di farne una denuncia, ma racconta del come una bambina di nove anni riesca inconsapevolmente a reagire ai crudeli eventi che la circondano con la sola forza della fantasia, celebrandone la smisurata immaginazione e la grande capacità di evasione che nell’età dell’innocenza funzionano come una corazza.
Gilliam decide di seguire, senza praticamente mai abbandonarla, la piccola Jeliza nella sua fuga distorta dalla realtà, ma senza intrusioni nella vicenda e senza mai esprimere giudizi o spingerci a darne.Nel film non è Jeliza ad agire da adulto, bensì lo spettatore che pian piano torna bambino, trasportato in un’esperienza cinematografica unica.
Nella prima parte della pellicola, chiusi all’interno di mura domestiche non meno malridotte della fattoria di Noah, la piccola Jeliza vive in una sorta di servitù.Le sue azioni smaliziate e naturali, sono figlie dell’educazione che non le ha dato il modo di essere bambina, ma che non è riuscita a cancellare i sogni e le ambizioni. L’immaginazione è ancora forte e trova la giusta e paradossale dimensione in una sequenza in cui Jeliza sostituisce gli atteggiamenti materni che solitamente vengono rivolti verso le bambole (che Jeliza invece decapita) verso il padre, al quale legge una fiaba della buonanotte seduta sulle sue gambe, mentre egli vige in stato catatonico causato dall’eroina.
La frettolosa fuga dalla casa, segnata dal passaggio sotto un ponte che traccia una netta linea di confine tra due mondi, ci catapulta rapidamente in un luogo, dove l’impossibilità di evadere si amplifica e abbraccia vasti spazi tra i campi di grano.
Nelle mani di Gilliam, la Camera assume il ruolo di catalizzatore degli stati d’animo di Jeliza. Una Camera scrutante e ossessiva durante le esplorazioni, (di)storta e spostata durante i viaggi onirici, leggera e libera durante le corse tra il grano, sempre dal basso a rievocare un punto di vista infantile della piccola protagonista.
La terra delle maree (Tideland) non è altro che lo specchio della condizione psicologica di Jeliza, uno spazio apparentemente sconfinato come potrebbe essere la fantasia, ma che in realtà ha limiti marcati e invalicabili. Una metafora: se la fantasia prende il sopravvento su noi stessi, si trasforma in un limite. Questo limite distorce la realtà. Jeliza non supera mai questi confini, ed è, sempre metaforicamente, imprigionata nel suo mondo fantastico che ha preso ormai il sopravvento. Finché Jeliza continuerà il suo viaggio non potrà compiere il passo per abbandonare l’infanzia ed entrare nel mondo dei grandi.
E’ emblematico il fatto che Jeliza sopporti e viva esperienze che turberebbero e segnerebbero psicologicamente qualsiasi adulto senza mai praticamente spaventarsi, ma contemporaneamente viva la sua avventura in un continuo stato di angoscia spaventandosi continuamente di cose che sono solo il frutto della sua immaginazione.
Solo nel finale la piccola Jeliza si spaventerà per cose reali, iniziando una presa di coscienza che segnerà la svolta, senza più possibilità di ritorno, verso la maturità.
Gilliam costruisce una favola dai toni dark contrapponendo interni gotici e oscuri ad esterni dai chiari riferimenti impressionistici, impregnando la pellicola di quel inconfondibile “stile Gilliamesque” che ha da sempre caratterizzato i suoi lavori.
Lo spettatore precipita nella buca del Bianconiglio, risucchiato nel vortice di una inconsapevole e continua fuga, in corse funamboliche tra i campi di grano, o durante trip lisergici nelle fantasie di Jeliza, rapito dalle immagini fotografate in maniera impeccabile dal devoto collaboratore Nicola Pecorini, che meriterebbe tutti i riconoscimenti del caso per una prestazione ineccepibile.
Tideland è e resta un film cupo e di difficile metabolizzazione, frutto di una impresa creativa già di partenza consapevole di non rientrare in standard di mercato di facile distribuzione.
Il nuovo film di Terry Gilliam è proprio questo, una prova d’Autore e se vogliamo l’esigenza, di raccontare una storia d’infanzia senza vincoli e lontano da facili retoriche. L’evasione a sua volta da una realtà adulta che troppo spesso soffoca e limita le fantasie di un regista che, quando lavora senza pressioni produttive e riesce ad avere il pieno controllo del processo creativo, regala gioielli di stile e valore unico
Un film che per regola o si ama o si odia, ma se si accetta il gioco e ci si abbandona, travolge e arriva a colpire in pieno il bersaglio. Un prova che cancella il dubbio - se mai si fosse insinuato - che l’estro creativo del regista Sessantaquattrenne Ex-Monty Python si sia affievolito.
Restiamo in attesa, nella speranza che il film non resti stritolato nei meccanismi della grande distribuzione.
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