Ci scrive il professor Massimo Nardin in garbata replica all'articolo di Marina Lenti e FC, Il fantasy è la magia nera del cinema, del 26 gennaio (http://www.fantasymagazine.it/notizie/7038. Pubblichiamo volentieri nella speranza che ne nasca un interessante discussione.
"Mi è stato segnalato un interessante dibattito nato da un Suo articolo pubblicato su fantasymagazine.it. Sono così andato a leggere di persona: mi complimento con Lei per la lucidità della Sua analisi e per la qualità degli interventi dei Suoi lettori (davvero preparati), ma ritengo ora doveroso (essendo analisi e interventi basati su un comunicato stampa) precisare alcune questioni: come Lei sa (e come alcuni attenti lettori hanno sottolineato), è inevitabile che un lancio d’agenzia offra un resoconto parziale e privo di sfumature (insomma, una “mezza verità”). Del comunicato in esame, però, nulla rinnego: semmai vorrei qui chiarirne e svilupparne l’idea portante.
1. W il Fantasy!
Innanzitutto, nessuna avversione preconcetta contro il “genere fantasy”. Anzi: chi Le scrive (che non può vantarsi di essere coetaneo di «Vittorini», avendo 32 anni e mezzo) ha fatto il proprio ingresso nel mondo della lettura con La Storia Infinita (capolavoro che non solo resta nel suo cuore ma che pure difende nel libro) e ha proseguito divorando una buona parte della produzione asimoviana… Una domanda però (che verrà ripresa in chiusura): mi piacerebbe sapere che tipo di “fantasy” difendono i Suoi lettori. Il “fantasy” abbraccia cinema e letteratura insieme: la mia critica riguarda soltanto il cinema, ed un certo tipo di cinema. Ed è una difesa della fantasia e un attacco alle limitazioni: al lettore indovinare se queste provengano dalla pagina scritta o dal film (o, perché no?, da entrambi).
2. Lo specifico cinematografico
Niente «soggettivismi»: la dimostrazione di quale sia lo specifico cinematografico che si troverà nel mio libro è del tutto oggettiva e dimostrata. Lungi da me dettar legge o «imbrigliare» la «creatività umana»: sono il primo a battermi per avere quante più diverse e contrastanti manifestazioni artistiche, e a cercare nella sala cinematografica svago e momenti di pura evasione.
Ciò non toglie però che, a livello di ricerca, io possa indagare in tutta tranquillità ciò che distingue il cinema dalle altre arti, ciò che – come direbbe il filosofo – «fa del cinema nient’altro che cinema». Ovvero, ciò che lo differenzia in primo luogo dalla letteratura, dalla pittura e dal teatro, arti alle quali deve la propria formazione e il proprio nutrimento ma dalle quali è chiamato a prendere le distanze, pena ibride scimmiottature. Come sono – è questa la mia presa di posizione, ripeto, dimostrata – molti dei film che vediamo ogni giorno; che – sottolineo – sono io il primo ad amare e a ricercare ma che non posso riconoscere quali espressioni del cinema al suo massimo grado.
La dimostrazione, in effetti, è quanto di più semplice (e semplice è il cinema più evocativo). Il cinema è innanzitutto fotografia, fotografia in movimento: ebbene, quando noi scattiamo una fotografia con la nostra vecchia fotocamera in pellicola, il Mondo si imprime di per se stesso sul supporto. Potremo adottare gli artifici che vorremo, prima e dopo lo scatto, ma il miracolo di una fissazione indipendente dall’autore è ciò che distingue la fotografia dalla pittura e ne costituisce il potenziale sovversivo (inquietante, se ci pensiamo bene).
Ribadisco: qui, per la prima volta nella nostra storia, il Mondo si imprime di per sé, l’uomo e l’arte vengono dopo. A ciò il cinema aggiunge il tempo: con l’introduzione del sonoro, la Settima Arte s’è trovata a dover rispettare non solo lo spazio ma anche il flusso temporale. In ultima analisi, ciò che la cinepresa registra è ciò che è avvenuto e, insieme, come quella cosa è avvenuta. Questo non lo possono fare le altre arti, la letteratura, la pittura, la musica, la danza, la scultura, il teatro… Ogni tentativo di gioco con lo spazio o con il tempo nel cinema viene smascherato.
Si obietterà giustamente: ma lo stesso punto di vista scelto è un artificio, non esiste la visione obiettiva (o «pedissequa»)! Appunto. Qui sta la seconda faccia della medesima medaglia: il cinema, da un lato, è fissazione dell’è stato e del come è stato; dall’altro, è racconto, montaggio, scelta di (all’interno di) quell’«è stato». La lotta tra l’autodeterminazione (autonomia, autoimposizione) del Mondo e il racconto dello stesso: è questa la vera magia del cinema, la sua carica rivoluzionaria, il suo potenziale esplosivo.
3. Il baro
È però assai facile giocare con quella autodeterminazione di partenza. La gran parte dei registi cerca di spezzare spazio e tempo in mille frammenti monosignificanti: quell’inquadratura, allora, vorrebbe dire questo e nient’altro. Insomma, si cerca di fare letteratura. Peccato che questo gioco sia sempre votato alla sconfitta: nell’immagine cinematografica – al contrario di ciò che accade in quella letteraria – convivono infiniti piani, insomma c’è sempre troppo (ripeto: è il Mondo, tutto il Mondo inquadrato, che s’imprime sul supporto) e il flusso temporale non può essere bloccato. La scrittura, invece, alterna necessariamente (è questo il suo specifico) descrizione e narrazione, e prevede il focalizzarsi su un aspetto alla volta; non solo: chiama in causa il lettore in ogni istante proprio per dar volto alle cose raccontate e per gestire il flusso temporale.
L’esatto opposto accade quando giriamo e vediamo un film: qui il tempo è eterodiretto, imposto. Contenga ralenti piuttosto che accelerazioni, il film, una volta terminato, ad ogni nostra visione (che – al contrario della lettura – non prevede nostri ulteriori interventi) durerà sempre gli stessi minuti e secondi, e farà vedere sempre le stesse cose. Il film – sia per il regista che per lo spettatore – è innanzitutto un’avventura spaziale e temporale, di più: un’educazione allo spazio e al tempo dell’Altro.
Il rispetto scrupoloso dell’autodeterminazione del Mondo in vista di un suo sovvertimento attraverso il racconto è la pratica più difficile che ci sia. Verrebbe da dire che è un’aspirazione, realizzata da pochissimi registi (primo fra tutti, lo «scultore del tempo» Andrej Tarkovskij): il trucco, la “fumetizzazione” o “letteraturizzazione” del cinema sono strade ben più agevoli, così come più sterili sono i risultati. Sterili innanzitutto per lo spettatore, chiuso in un gioco autoreferenziale di indovinelli – appunto – letterari che depotenziano la magia del cinema.
4. Digitalizzazione
Che cosa fa il digitale? Porta a compimento l’opera, la rinuncia dell’uomo a lottare, a confrontarsi con una potenza che lo sovrasta. Il digitale è chiusura ultima in un mondo costruito a nostro puro uso e consumo. Un mondo perfetto retto dalle proprie leggi, senza problemi e senza più un Altro. Un mondo che fagocita tutti i campi artistici riducendoli ad una successione di 1 e 0. Quando scattiamo una fotografia in digitale, la luce viene trasformata in ciò che nulla ha a che vedere con il Mondo che quella stessa luce ha emanato: il cordone ombelicale è reciso per sempre.
Il digitale è ricostruzione, è scrittura, grammatizzazione del Mondo, suo trasferimento all’interno di un mondo parallelo virtuale. L’uomo, allora, da una parte vince (stravince: riesce finalmente a mettere in immagini l’inimmaginabile, creando un mondo più vero del vero) e raggiunge quel dominio completo sulle cose goduto, nel loro piccolo, dal pittore e dallo scrittore; dall’altro perde, e in maniera definitiva, la sua battaglia e la sua testimonianza tragica.
5. Potter vs. Tolkien
Non è infine un caso che le “difese del fantasy” pubblicate nel forum provengano prima di tutto dai fan di “HP” piuttosto che da quelli del Signore degli Anelli: nel primo caso, abbiamo una relazione simbiotica tra libro e film, tanto stretta che l’uno sembra generare (prevedere) l’altro e viceversa. Si conoscono, invece, i numerosi attacchi ricevuti dalle messe in immagini dell’altra saga, precedente a (e del tutto indipendente da) i film. Il motivo è ovvio: il Potter del libro ha finito con il coincidere con quello dello schermo; io leggo il libro e le mie immagini sono già condizionate e sempre in attesa delle altre, definitive immagini (e avrà mai fine, questo balletto?).
Per chi invece ha divorato in passato la saga di Tolkien, il vedere oggi le proprie immagini mentali rivestite da un unico abito cinematografico dev’essere una gran bella delusione. In ogni caso, una limitazione, ché l’immagine sorta dalla lettura è indefinita, un continuo divenire che accompagna la nostra esistenza, mentre quella del cinema è una sola, nel miglior caso un punto di partenza per altre, indicibili (invisibili) immagini.
17 commenti
Aggiungi un commentoSi, però questo non vale allora solo per il fantastico ma per qualsiasi trasposizione dalla letteratura. E' lecito chiedersi: le trasposizioni cinematografiche sono arte o potrebberlo mai esserlo o servono solo a inseguire esigenze di cassetta?
Ma non crediamo (né io né tu, da quanto scrivi) sia questo il focus del saggio.
Infatti!
Sono io che, partendo dalla mia analisi della risposta del prof, ho allargato il discorso.
Quanto alla tua domanda...
Beh, diciamo che apprezzo Tanto, il progetto di Star Wars (se ci si ferma alla prima trilogia filmanta) quello era un progetto scirtto e pensato per il cinema... nessun bottino dal mondo letterario, nessun immiserimento... una dimostrazione che il cinema può essere vera e propria arte a sé, non il fantasma che visualizza ciò che gli scrittori hanno già immaginato.
Infatti!
Sono io che, partendo dalla mia analisi della risposta del prof, ho allargato il discorso.
Quanto alla tua domanda...
Beh, diciamo che apprezzo Tanto, il progetto di Star Wars (se ci si ferma alla prima trilogia filmanta) quello era un progetto scirtto e pensato per il cinema... nessun bottino dal mondo letterario, nessun immiserimento... una dimostrazione che il cinema può essere vera e propria arte a sé, non il fantasma che visualizza ciò che gli scrittori hanno già immaginato.
che dire studio all'università proprio questo (arti e tecniche dello spettacolo digitale) e da dire ci sarebbe molto !
Potrei esordire con la diffidenza che molti registi di teatro hanno riservato nei confronti del cinema alla sua nascita e quanti invece hanno iniziato a sperimentare con esso
c'era chi difendeva a spada tratta il teatro "puro" chi usava screens su cui proiettare scene cinematografiche che venivano integrate con la recitazione.
Credo che la "paura" scatenata dalle innovazioni sia ciò che determina una scelta tra digitale e analogico!
Un ibridazione di forme artistiche non è un abominio a prescindere!
è vero che spesso gli effetti speciali in superabbondanza servono a sopperire la carenza di spessore drammaturgico ma non è sempre così!
Ne è un caso matrix (non per altro lo fanno analizzare all'università)
che mostra l'assoggettamento dell'uomo da parte delle macchine e delle nuove tecnologie sovraccaricando gli occhi dello spettatore con effetti speciali che lo lasciano inerme sulla poltrona del cinema assoggettandolo a loro volta...è come mostrare ciò che si stà vivendo, è come un play whit the play!
il discorso è lungo e in conclusione penso che non si tratta di scegliere tra analogico e digitale, tra trame di spessore o effetti speciali le due cose non si escludono a vicenda.
Concordo.
Oltretutto, un esempio riuscito (almeno come fotografia) di mescolanza di arti visive è il film di Kyashan. pesantuccio da digerire come trama... è simbolista in modo deciso (ma cinema giapponese è, indi...), ma io l'ho apprezzato anche per quella!
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