La raccolta di racconti Il settimo cielo rappresenta un’anomalia nella produzione del premio Nobel egiziano Naghib Mahfuz. L’anomalia non risiede tanto nella scelta di un soggetto fantastico; Mahfuz fin dai suoi esordi letterari negli anni ‘30 ha mostrato un interesse precoce sui tempi per i generi letterari, per la scrittura cinematografica, per la passione calcistica e quella culinaria e, in genere per un approccio popolare alla letteratura. L’anomalia, in uno scrittore che ha dichiarato che il vero vincitore del Nobel è stata la sua lingua, quell’arabo che ha utilizzato con cura e amore come una forza magica in grado di rivelare da sola i personaggi, gli ambienti, l’essenza stessa delle sue storie, è il modo sciatto e distratto con cui ha svolto i soggetti di questo libro.

Per inveterata tradizione in Italia i libri di qualsiasi paese sono tradotti dalla loro traduzione inglese. Montale si divertì a far tradurre una sua poesia in inglese per farla tradurre in francese e via dicendo fino a nuova traduzione italiana dalla quale la poesia uscì del tutto diversa. Difficile capire, quindi, quanto si perda in tutti questi passaggi, ma, al di là di qualsiasi questione di stile, il numero delle cose mancate in questo libro è comunque di proporzioni non trascurabile.

 

Il settimo cielo, sfidando ogni superstizione, raccoglie tredici racconti. Il primo, che è anche il più bello, dà il titolo a tutto il volume.

In un vicolo di un quartiere della periferia del Cairo muore un ragazzo, Raouf. Lo ha ucciso il suo migliore amico, Anous. Raouf è figlio di povera gente, ma è un ragazzo brillante che ambisce a una vita di studio. Anous è, invece,  il figlio di una capo malavitoso crudele e spietato. Amano entrambi la stessa donna, Rashida. Rashida ama Raouf. Per questo motivo Anous lo uccide. Appena morto, Raouf si sdoppia dal suo corpo e lo contempla con malinconia. Dunque ascende a un cielo dove lo attende un guardiano che peserà, in puro stile faraonico, la sua anima: il guardiano è, infatti, sia l’avvocato che il giudice. Gli spiega che un’anima pesata ha tre possibilità.

 

La prima è non passare il giudizio e rincarnarsi. Per esempio il padre di Anous, il mafioso, sono millenni che si rincarna in tutti i malvagi del mondo compreso Hitler. Stessa sorte tocca a un personaggio a cui Mahfuz ha dedicato un intero libro, Akenaton, il faraone che ha cercato di imporre con la violenza il monoteismo; il che, nell’ottica dell’autore, equivale a imporre il bene con il male.

La seconda è passarlo con riserva e essere rimandato nel mondo come spirito guida per salvare l’anima di un candidato al peccato.

La terza è farcela e cominciare la difficile e, forse, infinita ascesa al settimo cielo. Nessuno ci riesce mai.

La trama, in sé  divertente e fantasiosa, però, non riesce a distaccarsi dalla più consumata tradizione moralistica.

Saggia e interessante è certa ironia contro le teorie psicanalitiche in grado di convincere un assassino di essere solo uno che si immagina di esserlo a causa del suo complesso edipico. Mafhuz prende in giro l’idea che, soffrendo della tipica  “costipazione dovuta alla situazione politica”, tutto possa essere risolto suggerendo “una prescrizione di lassativi”.

Coraggioso il civile e energico invito alla resistenza contro il male che iscrive in alcuni dialoghi.

 “Quello che mi ha fatto divenire avido è stata l’altrui debolezza” dice il padre di Anous al giudice, e questi gli risponde: “gli altri saranno puniti per la loro debolezza, proprio come tu lo sarai per averla sfruttata”.

Il resto del racconto, però, si congela in immagini stereotipate affastellate lungo il percorso di un gioco ascetico volto a creare una sempre più vaga e impossibile idea di questa ascensione al settimo cielo. Il finale, così, si risolve in una complicata e inutile sarabanda di reincarnazioni in cui si consuma in maniera non del tutto chiara non si sa se una vendetta o una liberazione. Il tutto dà vita a molti moralismi e banalità.

Questo è quanto si può dire del miglior racconto della raccolta.

Cosa troviamo negli altri?

Ne “Gli avvenimenti perturbanti” una serie di eventi bizzarri e contraddittori mettono in imbarazzo la polizia: qualcuno ha nello stesso tempo compiuto una serie di crimini ai danni di alcuni cittadini e  ha beneficiato altri con dei doni. Viene incolpato un uomo. Un poliziotto indaga. Il poliziotto non scoprirà mai se costui è colpevole, neanche noi, nemmeno Mafhuz e, quando il poliziotto si licenzia e diventa segretario personale dell’indagato, tutto prende una piega talmente vaneggiante che a nessuno gliene importa più niente.

Gli altri racconti, invece, sono fin dall’inizio deliranti e per lo più privi di finale.

Fa eccezione “Il bosco stregato” dove un giovane ragazzo indaga con curiosità su un bosco popolato da malvagi demoni finché, con la più vieta delle inversioni, si scopre che i demoni che infestano il bosco sono i visitatori umani che ne vengono a perturbare la pace.   

Persa qualsiasi sensibilità per demoni, angeli, punizioni e pentimenti, a distanza di parecchi secoli continuiamo a leggere Dante per la forza e la vivace fantasia (“l’alta fantasia”) con cui ha incarnato ognuna delle sue immagini, ha visto e ci fa vedere ognuna di quelle figure.

Mafhuz, in questo libro, non ha saputo reggere la fisiologica tensione poetica e metaforica del fantastico. Il tentativo di non rivelare troppo le proprie allegorie, non gli ha impedito di essere banale e didascalico, e, spesso, lo ha reso vanamente confuso.