«Te lo chiedo un’altra volta, Gemma, stai bene?». Tom è sinceramente preoccupato.

Aiutami Tom. Sto impazzendo.

«Avevo fretta, ecco tutto». La voce che esce dalla mia bocca è a metà tra una risata e un urlo, esattamente il genere di suono che emetterebbe una pazza.

Tom mi guarda come se fossi affetta da qualche rara malattia che lui non è in grado di curare. «Per amor del cielo! Vedi di controllarti. E alla Spence cerca di moderare il linguaggio. Non voglio doverti venire a riprendere poche ore dopo averti lasciata lì».

«Sì, Tom» rispondo, mentre la carrozza riprende vita con uno scossone e si mette in marcia sull’acciottolato portandoci lontano da Londra e dalle sue ombre.

 

 

Capitolo Quattro

 

«Ecco la scuola, Sir» annuncia il vetturino.

Abbiamo viaggiato per un’ora in mezzo a un paesaggio di colline costellate di alberi. Il sole è tramontato, il cielo ha assunto il colore azzurro brumoso del crepuscolo. Quando guardo fuori dal finestrino non vedo altro che una selva di rami sopra la mia testa e tra le foglie occhieggia la luna, piena e rotonda. Comincio a pensare che anche il nostro conducente abbia le allucinazioni, ma superata una collina la Spence ci si para davanti in tutto il suo splendore.

Mi ero aspettata una graziosa proprietà di campagna, il genere di posto descritto nei racconti a puntate sulle riviste, dove ragazzine dalle guance rosee giocano a volano su curati prati verdi. Non c’è niente di intimo nella Spence. È un luogo enorme, un immenso castello pieno di torrette e guglie. Senza dubbio ci vorrebbe un anno intero per visitarne tutte le stanze.

«Ehi!». Il vetturino si blocca bruscamente. C’è qualcuno sulla strada.

«Chi va là?». Una donna si avvicina dalla mia parte e sbircia dentro la carrozza. È una vecchia zingara. Ha la testa fasciata strettamente da uno scialle ricamato e porta gioielli d’oro massiccio, ma per il resto è una stracciona.

«E adesso che c’è?» sospira Tom.

Sporgo la testa. Quando la luna illumina il mio viso, l’espressione della zingara si addolcisce. «Oh, ma sei tu. Sei tornata da me».

«Le chiedo scusa, signora. Deve avermi scambiato per un’altra».

«Ma dov’è Carolina? Dov’è? L’hai portata?». Comincia a gemere piano.

«Avanti, signora, ci lasci passare» le intima il vetturino. «C’è una dama perbene».

Con uno schiocco di frusta la carrozza si rimette in marcia, mentre la vecchia zingara ci grida dietro qualcosa.

«Madre Elena vede tutto. Conosce il tuo cuore! Lei sa!».

«Buon Dio, hanno pure la loro fattucchiera» sibila Tom. «Perfetto».

Tom può ridere quanto vuole, ma io non vedo l’ora di lasciare questa carrozza e questo buio.

 

 

§

 

 

Il cavallo ci conduce sotto un arco di pietra e oltre un cancello che si apre su una splendida tenuta. Riesco a distinguere soltanto un meraviglioso prato verde, perfetto per giocare a volano o a croquet, e quello che sembra un giardino pieno di piante lussureggianti. Un po’ più lontano c’è un boschetto di grandi alberi, fitto come una foresta. Oltre gli alberi, una cappella appollaiata in cima a una collina. Il paesaggio sembra essere rimasto identico, immutato per secoli.

La carrozza procede a scossoni su per la collina fino al portone d’ingresso della Spence. Allungo il collo fuori dal finestrino per osservare l’imponente mole dell’edificio. C’è qualcosa che sporge dal tetto. È difficile distinguere che cosa sia alla fioca luce del tramonto. La luna sbuca da un banco di nuvole e io le riconosco: gargolle. La luna inonda il tetto, illuminando scorci e brandelli: la lama di un dente affilato, la smorfia di una bocca, occhi infernali.

Benvenuta alla scuola preparatoria, Gemma. Imparerai a ricamare, servire il tè, fare la riverenza. Oh, a proposito, è possibile che di notte tu venga distrutta da una sinistra creatura alata del tetto.

La carrozza si ferma di colpo. Il mio baule viene posato sui gradini di pietra davanti al portone di legno. Tom solleva il pesante batacchio d’ottone, approssimativamente grande quanto la mia testa. Mentre aspettiamo, non resiste e mi impartisce gli ultimi consigli fraterni.

«Ora, è molto importante che tu mantenga una condotta degna del tuo status qui alla Spence. Va bene essere gentile con le ragazze meno abbienti, ma ricordati che non sono tue pari».

Status. Ragazze meno abbienti. Non tue pari. Mi viene da ridere. Dopotutto sono io quella anormale che ha causato l’omicidio di sua madre, quella che ha le visioni. Fingo di sistemarmi il cappello nel riflesso dorato del batacchio. Il tetro presentimento che provo probabilmente scomparirà non appena la porta si aprirà e una governante dall’aria materna mi accoglierà con un caldo abbraccio e uno schietto sorriso.

Giusto. Bussiamo ancora una volta in maniera decisa, per dimostrare che sono una brava e solida ragazza, il genere che ogni sinistro collegio anela ad accogliere. La pesante porta di quercia si apre su una governante dalla faccia rugosa, il corpo massiccio come un armadio, l’aspetto caloroso come il Galles in gennaio. Mi raggela con lo sguardo, pulendosi le mani sul grembiule bianco inamidato.